La recensione

Ref16: Relative Collider di Liz Santoro e Pierre Godard al Teatro Vascello

È andato in scena al Teatro Vascello, il 28 e il 29 ottobre 2016 per Romaeuropa Festival 2016, Relative Collider di Liz Santoro e Pierre Godard. La danzatrice americana, laureata in psicologia e biologia, e il matematico di Grenoble, autore teatrale, collaborano dal 2009 e dal 2011 dirigono i progetti della loro compagnia Le principe d’incertitude. Relative Collider è un macchinario scenico intelligente che replica l’idea di un acceleratore scientifico di particelle per scoprire le collisioni possibili in un universo di uomini, attori e spettatori di vita: un’esperienza singolare a metà strada tra danza, informatica e scienza, che conserva leggibilità ed essenzialità estetica convincendo il pubblico del Teatro Vascello.

Coreografia e Scienza si incrociano al Teatro Vascello con Relative Collider (andato in scena, per Romaeuropa 2016, il 28 e 29 ottobre 2016), lavoro del 2014 di una coppia di autori dal singolare percorso artistico: Liz Santoro, americana, danzatrice con formazione in Boston Ballet School e poi dottoressa in biologia e psicologia presso Harvard University in Cambridge, e Pierre Godard, matematico di Grenoble, prima analista finanziario in carriera, poi professionista del teatro (da lighting designer a direttore di scena, a regista). Insieme, Santoro e Godard hanno fondato nel 2011 la compagnia Le principe d’incertitude (non a caso un nome di derivazione scientifica: “principio di indeterminazione”) per dedicarsi ad un’originale ricerca sulle dinamiche dell’osservazione e dell’attenzione che li ha portati in pochi anni ad esibirsi nei più importanti contesti internazionali come Impulstanz Wien, CDC Atelier de Paris-Carolyn Carlson (di cui sono anche artisti associati), Museum of Arts and Design in New York.

Relative Collider è un macchinario scenico intelligente che replica l’idea di un acceleratore scientifico di particelle per scoprire le collisioni possibili in un universo di uomini, attori e spettatori di vita: un esperimento tra l’arte e la scienza che utilizza lo strumento coreografico come espressione di nuove ipotesi comunicative e sistemi di movimento, ben esemplificati da gestualità essenziali e puntuali.

Il rettangolo bianco circondato dalle pareti nude di un palcoscenico senza quinte ci attende silenzioso e disabitato. Da un angolo del proscenio, misteriosamente generati dalla platea buia, entrano in fila e a passo svelto due uomini e due donne in abiti casual. Il ticchettio quieto di un metronomo invisibile attiva un microingranaggio di vita, assecondato dal gruppo con obbediente automatismo. I passi brevi e alternati di una marcia sul posto tracciano i segni di un alfabeto muto che si trasforma in base comune e costante di un dialogo inespresso.

Abbiamo da subito l’impressione di osservare, attraverso la lente di un microscopio gigante, un brulichio di materia rinchiuso in un enorme vetrino. Ansiosi di segnalare l’anomalia di un sistema apparentemente perfetto, ci ritroviamo a contare i passi con l’intenzione di individuarne la formula e osserviamo con insistenza l’uomo al computer sulla destra del palcoscenico (lo stesso Pierre Godard), nella convinzione che sia nostro complice nello svelamento di leggi universali. Il codice si arricchisce gradualmente di nuovi elementi e i tre mimano, sulla stessa sequenza ritmica, interi monologhi sincronizzati attraverso gesti spigolosi e secchi di braccia, mani, polsi e dita (figure tratte dalle fotografie dello studio del 2012 We Do Our Best; in basso un estratto video).

L’episodio si ripete in tre diversi angoli del palcoscenico e il suono sembra amplificarsi parallelamente al disordine di un sistema in cerca di nuovi equilibri. Poi arriva la voce: l’uomo al computer accorda al battito del tempo un elenco di parole e pause che, senza costruire una narrazione, danno avvio ad una storia visibile e movimentata. Le sillabe pronunciate con diligenza si sostituiscono all’anonimo conteggio in otto tempi e compongono una cantilena sui frammenti di mille racconti (le parole derivano da una selezione informatica tra le migliaia di testi del Gutenberg Project, immenso recipiente digitale di opere liberamente consultabili in rete).

Si sciolgono i legami invisibili del gruppo e i tre si liberano nello spazio, finalmente autori del proprio moto e interpreti delle traiettorie altrui. Gli elementi si incrociano senza toccarsi, come astri solitari in un sistema solare ipertrafficato. Espressioni e gesti sembrano adesso identificare tre differenti attitudini: c’è una ragazza dallo sguardo fisso e determinato (Cynthia Koppe), protagonista di legazioni di angoli e linee, essenziale nel vocabolario e perentoria nell’esecuzione; c’è un giovane incerto dagli occhi bassi (Lorenzo De Angelis), inchiodato ad un’autoreferenzialità incontrollabile del gesto; e c’è una donna dai ricci rossi (Liz Santoro), di cui a tratti ci pare di incrociare lo sguardo indagatore: attimi rivelatori in cui ci scopriamo possibili cavie di un esperimento in atto, osservati dai nostri stessi oggetti di studio.

L’effetto d’alienazione è dirompente e, mentre ci sorprendiamo a respirare sul ritmo del metronomo dittatore, l’universo scenico lentamente torna in equilibrio, in un percorso a ritroso che immobilizza le particelle in proscenio. Nel silenzio irreale che cancella l’eco del ticchettio, ci chiediamo se il nostro sguardo abbia influito sulla materia o se siamo stati noi stessi modificati dagli scienziati della scena. Scopriremo che, in un sistema perfetto, la variabile d’imprevedibilità resta l’uomo, soggetto alle leggi dell’universo eppure padrone di un arbitrio in grado di scardinarne gli esiti; e che è sempre all’uomo che la scienza mira e ritorna, alla ricerca del suo principio vitale per svelarne e onorarne il mistero.

Apprezziamo del duo Santoro/Godard l’abilità di rappresentare in scena un sistema complesso di elementi conservando tuttavia l’impressione di una semplicità leggibile e comprendiamo la predilezione, dichiarata dagli stessi autori, per un’esposizione dell’esperienza sensibile che non induca lo spettatore ad una prospettiva unica, ma ad una lettura liberamente interpretabile, pur tra i contorni di strutture e argomenti scientifici. Spettacolo a tratti ipnotico, Relative Collider appassiona e convince un pubblico curioso in grado di immergersi in un’esperienza singolare a metà strada tra danza, informatica e scienza. Buona, al Teatro Vascello, l’accoglienza del pubblico del Romaeuropa 2016.

Lula Abicca

02/11/2016

L’articolo si riferisce alla rappresentazione del 28 ottobre 2016.

 

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Un Commento

  1. caterinagiangrasso

    Nella performance di e con Liz Santoro & Pierre Godard Relative Collider più che un pensiero contorto si esplicita un pensiero contorsionistico.
    Dato il percorso artistico e umano che caratterizza i due autori, calati così a piedi uniti nella contemporaneità, è facile ipotizzare come questa collisione possa essere un punto di partenza per altre esplorazioni e altre innovazioni puntuali sulla forma e sul contenuto delle performance.
    La questione è: se Relative Collider rappresenta solo un punto di partenza è un ottimo punto di partenza, qualora fosse un punto d’arrivo o di stasi difficilmente riuscirebbe a far emergere delle potenzialità oltre quelle già espresse.
    In Relative Collider lo scontro è incontro e viceversa, è evocazione martellante – creata grazie al metronomo che scandisce incessantemente il ritmo dell’esibizione – che ingabbia lo spettatore e non lo libera, purtroppo.
    La coreografia, schematica ma non per questo non innovativa, è magnetica e scrutabile solo che si è capaci di addentrarsi nel meccanismo sonoro e visivo della performance. Assistere ad eventi del genere è una sfida positiva per qualsiasi spettatore, una messa al prova attraente in quanto tale ma non necessariamente per l’esito finale.
    Relative Collider rimane interessante per gli spunti, le capacità empatiche degli interpreti – ad esclusione volutamente di Lorenzo De Angelis (forse ricercatamente assente?) – e la garbata complessità coreografica, ma si stanzia su una ricerca estetica e sensibile decisamente troppo oltre. Voluta sì, ma probabilmente non efficace come auspicavano gli autori.
    Il retaggio scientifico da cui provengono Santoro e Godard, lei danzatrice e medico e lui tecnico e assistente di regia oltre che matematico, costituisce la base e l’altezza di un momento artistico palesemente complesso che si perde nella struttura scontatamente parabolica.
    Caterina Giangrasso
    Danzaeffebi meets #REf16

    Nov 02, 2016 @ 23:49:54

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