La recensione

REF16. Jan Martens e Nicole Beutler in scena per OLANDIAMO, focus sulla nuova danza olandese

Dal 2 al 6 novembre 2016, il Romaeuropa Festival ha dedicato alla danza contemporanea olandese un intero focus dal titolo OLANDIAMO. Al Teatro Vascello, è andato in scena THE DOG DAYS ARE OVER dell’artista attivo ad Amsterdam Jan Martens: una sfida creativa dagli esiti imprevedibili; settanta minuti di salti che sospendono il fiato in un sussulto di gruppo tenace e irresistibile. Al Teatro India è andato invece in scena 3: The Garden di Nicole Beutler: un lavoro denso di simboli e spunti di riflessione ispirato al trittico di Hieronymus Bosch. Buona per entrambi gli spettacoli l’accoglienza del numeroso pubblico di OLANDIAMO.

Un vero festival nel festival, la sezione del Romaeuropa dedicata quest’anno alla nuova danza olandese, un focus in tre appuntamenti dal titolo OLANDIAMO che ha raccolto, tra i Teatri India e Vascello, un pubblico numeroso e attento. L’interesse dell’iniziativa, in questa seconda fase del REf16 che archivia le serate dei grandi autori internazionali e apre il capitolo sulla giovane danza italiana ed europea, non è tanto nella selezione di tre rappresentanti del recente fermento olandese, quanto nella lente di ingrandimento su un’intera fascia di terra che sembra oggi godere di fioritura creativa fuori dall’ordinario.

Fenomeno probabilmente spiegabile con la presenza nei Paesi Bassi di centri di produzione e formazione eccellenti (ICK Amsterdam, Codarts Rotterdam e naturalmente NDT); o con la vicinanza ad un’altra nazione iperproduttiva, il Belgio, patria di genialità indiscusse come Anne Teresa De Keersmaeker e Wim Vandekeybus; oppure ancora con lo sviluppo di una pratica virtuosa di residenze coreografiche che consente agli autori di crescere artisticamente e di condividere i risultati della ricerca creativa.

Sono attivi nella stessa città di Amsterdam, gli artisti Jan Martens e Nicole Beutler (rispettivamente di origine belga e tedesca), protagonisti di due degli appuntamenti di OLANDIAMO andati in scena a Roma tra il 2 e il 6 novembre 2016.

Jan Martens (già presente al REf 2015 con Ode to the Attempt) porta in scena con THE DOGS DAYS ARE OVER un progetto audace che ne rivela l’estro folle e geniale: una sfida creativa dagli esiti imprevedibili che sospende letteralmente il fiato e inchioda lo sguardo alla scena.

Tra i sedili del Teatro Vascello, gli spettatori quasi non sembrano accorgersi della scena già abitata da otto giovani scalzi in tenuta sportiva; ugualmente illuminati, palcoscenico e platea attendono il segnale di inizio di uno spettacolo già in corso. Il piccolo esercito di atleti si avvia spavaldo verso otto paia di scarpe da ginnastica, ordinatamente disposte in attesa di moto e di strade. Schierati di fronte al pubblico, gli otto formulano un accordo silenzioso su cui accennano un rimbalzo molleggiato che lentamente si trasforma in un salto a gambe tese: regolare, costante, ritmico. Non si tratta di un volo e nemmeno di saltelli alternati; è un sussulto di gruppo, sincronizzato e tenace, insistente e inesorabile.

Nei settanta minuti successivi cambierà tutto, tranne quel salto, che resterà nota martellante su un suolo arrendevole alla volontà compatta del gruppo.

Dalla linea d’inizio, il plotone percorre ogni angolo della scena, in uno scambio continuo di posti, ritmo, conteggi e figure che non perdono un battito e tagliano il tempo in strofe ritmiche stringenti. L’assenza di musica acuisce sul palcoscenico il rumore delle suole gommate e il contrattempo delle assi di legno, su un sottofondo di respiri faticosi e diligenti. Il sudore tinge progressivamente la lycra dei collant e indora i volti per nulla esausti degli eroi saltellanti, in un crescendo adrenalinico dagli esiti estatici.

Come il giro vorticoso su se stessi, il salto torna a raccontarci di mistiche aspirazioni e cerimonie catartiche (pensiamo alla Danza Masai o al ballo della Taranta), ma anche di gestualità spontanee che appartengono profondamente all’uomo e che lo conducono a stati di felicità e liberazione (pensiamo ai giochi dell’infanzia, al salto con la corda, o all’espressione “saltare dalla gioia”). I “giorni da cani” del titolo sono per il popolo belga i giorni più caldi dell’anno (persino fatali in altri paesi del mondo): ore di fuoco e fatica che diventano attimi di resistenza, sopravvivenza e forse, finalmente, rinascita. Giorni da cani come quelli che l’arte vive ogni giorno, al bivio tra l’appagamento delle esigenze del pubblico e l’autentica necessità di ricerca.

Ci sembrerà infine di immaginarlo, il nuovo corso, al termine di una folle corsa ossessiva: una nuova umanità senza maschere, reduce da una battaglia condivisa e vittoriosamente sopravvissuta. Spettacolo dal singolare impatto estetico, percorso da dinamiche e geometrie irresistibili, The Dog Days Are Over conquista il pubblico del Teatro Vascello, decisamente entusiasta e caloroso negli applausi finali per gli otto instancabili interpreti.

È invece più complesso, non privo di spunti di riflessione, il lavoro 3: The Garden di Nicole Beutler, direttrice ad Amsterdam del centro artistico NBprojects. Il Giardino del titolo è quello, famosissimo, “delle delizie”, dipinto dall’artista olandese Hieronymus Bosch: un trittico carico di simboli sacri e profani, a metà strada tra la rappresentazione di un’umanità decaduta e la visione di un paradiso del libero arbitrio.

La scena è dominata da un enorme tappeto bianco, suolo candido e soffice per i primi abitanti del mondo. Un giovane al microfono ripercorre l’origine della vita terrestre, dal nulla assoluto alla coscienza dell’uomo, in un racconto sull’evoluzione che poco concede ai capitoli biblici. Nel giardino circondato da frutti che incombono come il peccato, compaiono i personaggi di un’età senza macchia: c’è una donna bellissima, Eva innocente, che si accosta ad un uomo barbuto e scomposto, libera e incosciente di fronte alla responsabilità della Storia.

La coppia congiunta richiama intorno a sé un gruppo di giovani in un quadro geometrico e ordinato, che intreccia e scioglie i legami di una comunità armonica. La sequenza si ripete nel corso di un tempo ipnotico e la licenziosità dei contatti accende i colori di un’umanità che affonda tra le proprie delizie. Gli strumenti musicali inerti ai lati del palco preannunciano inferni imminenti e due giovani dal volto angelico accompagnano con chitarra e diamonica un cantilena dagli echi profetici: You will find if you want me in the garden, for spring and summer, waiting for the fall (canzone del 1996 The Garden del gruppo tedesco Einstürzende Neubauten).

 

L’uomo che ha ceduto al peccato cade tra i tormenti della vergogna e della punizione, soffocato dalle costruzioni del suo stesso paradiso. La scultura armonica dell’inizio si trasforma in un groviglio che sussulta su ritmi concitati, esponendo al mondo l’inquietudine di un’umanità irredenta. Sul finale, Beutler azzarderà tuttavia nuovi ipotetici inizi, dipingendo sulla scena un cerchio di uomini in rinascita tra le nudità di una natura prodiga.

Lo spettacolo gode dei richiami suggestivi (e a tratti inquietanti) alle immagini misteriose di Bosch e alle aspirazioni utopistiche del Monte Verità, comunità naturista nata tra le colline svizzere di inizio Novecento. 3: The Garden cede talvolta al ripiegamento didascalico, attutendo l’esplosione estetica dello studio, che resta tuttavia complessivamente accattivante e denso di spunti di riflessione. Buona l’accoglienza del pubblico del Teatro India, inaspettatamente numeroso in tutti gli appuntamenti di OLANDIAMO 2016.

Lula Abicca

12/11/2016

Foto: 1. 3: The Garden di Nicole Beutler, ph.  Stephen Wright; 2.-3. 3: The Garden di Nicole Beutler, ph. Anja Beutler; 4. -5. The dog days are over di Jan Martens, ph. Piet Goethals

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2 Commenti

  1. ericabravini

    The dog days are over di Jan Martens
    Il pubblico entra in sala, le luci sono accese, e sul palcoscenico, a vista di tutta la platea, gli otto danzatori, si scaldano e si preparano allo spettacolo. Si legge dal programma di sala che The dog days are over del giovane olandese Jan Martens, sarà una performance di 70 minuti di salto continuo; quasi impossibile da immaginare, ma evidentemente possibile per questi ragazzi, molto diversi sia fisicamente, sia per il vestiario, ginnico, colorato e vagamente anni 80’.
    I danzatori si dispongono in una fila orizzontale, dove ad aspettarli ci sono le loro scarpe da ginnastica. Dopo averle indossate, con dei sussulti, iniziano a prendere tutti quanti lo stesso ritmo. Questi piccoli bounce diventano poi piccoli salti che per vari minuti rimangono tali; il risultato è ipnotico e straniante. Sedici piedi saltano all’unisono mantenendo sempre lo stesso ritmo, la stessa intensità, rimanendo precisamente nello stesso spazio, nella stessa fila.
    Non c’è musica ad accompagnarli, ma non ce ne sarebbe nemmeno bisogno, perché è il movimento stesso che si fa ritmo e si fa musica; le scarpe sul pavimento creano il suono, lo stesso che si frammenta in tanti altri suoni, come l’eco della sala o il muoversi delle tavole sottostanti il linoleum. Si crea una musica fatta di corpi all’unisono, in sincronia perfetta, ma che talvolta si separano dal gruppo per creare nuovi ritmi ed una nuova musica, sempre in cambiamento e in variazione di tempi musicali, dal 2/4 al 3/4, fino ai tempi più complessi.
    The dog Days are over, con i suoi salti e combinazioni di essi, studiati in maniera matematica, ricorda molto la poetica di Anne Theresa De Keersmaeker, (ispirazione evidente, che riconosce lo stesso Martens), ma che a me ha ricordato inoltre Empty Moves di Angelin Preljocaj, sia per l’abbigliamento sgargiante, ma soprattutto per l’idea di composizione coreografica fine a sé stessa, in cui i movimenti, le forme e i passi sono come parole da combinare infinite volte per creare un discorso complesso, stratificato e talvolta no-sense.
    Nella prima parte dello spettacolo il gruppo è compatto, come un esercito pronto all’attacco; i salti sembrano scandire il ritmo dei canti di guerra spartani, con i quali l’esercito si preparava alla battaglia, mantenendo l’ordine della formazione. La performance di Martens, infatti, sembra proprio avere un intento, se non bellico, ma sicuramente politico, come lui stesso afferma; il messaggio non è nel significato del movimento singolo, ma nell’idea del gruppo compatto che vuole raggiungere un fine comune, ovvero, in questo caso, completare la performance, nonostante la fatica, incredibile e disumana.
    Verso il termine dello spettacolo, quando il sudore è visibile sui pantaloni e sui corpi quasi esausti, i danzatori cominciano ad urlare i tempi dei salti (es. one, two, three, two, two, three..), continuando ovviamente a saltare, cosicché lo sforzo di fa ancora più inimmaginabile. L’azione si conclude come è iniziata; in una fila, il salto si fa sempre più piccolo fino a che diventa un bounce che calmandosi diventa immobilità. Il pubblico applaude gli otto reduci sopravvissuti, che sembrano dimostrare meno fatica di quanta sarebbe dovuta derivare da uno sforzo fisico del genere.
    The dog days are over è una sfida, sicuramente vinta da Jan Martens, è una performance particolare, all’avanguardia, che se pur riprende schemi di astrazione del movimento già cari al pubblico della danza, è unica nel suo genere. Non può essere definito semplicemente uno spettacolosi danza, perché The dog days are over è danza, è performance art, è ricerca coreografica, è atletismo ed un evento singolare, un fenomeno da analizzare.

    Erica Bravini
    Danzaeffebi meets REf16

    Nov 12, 2016 @ 18:13:15

  2. marcoguarna

    NICOLE BEUTLER, 3Garden, Teatro India
    Nicole Beutler esce appena prima della rappresentazione per un warm up con il pubblico dell’India. E’ cortese, sorridente, alla mano. Ci spiega come prenderci cura dei nostri muscoli, ci insegna qualche movimento di Kalahari Payat. Poi, entriamo, comincia lo spettacolo.
    Il giardino dell’Eden è un tappeto bianco enorme e soffice, vi crescono piante di plastica e anche il frutto del peccato è finto. Un narratore con camicia a quadri e cappello pendant ci racconta la Genesi (“In principio era il nulla…”) in versione wikipedia. Entrano i ballerini. C’è Eva, dalla chioma lanceolata, c’è un Adamo barbuto, ossuto, gramo ed un altro Adamo, nero questo, florido, dai muscoli lucenti, che pare uscito da un sacro di David La Chapelle. Dalle casse escono brani degli Einsturzende Neubauten: uno di quei gruppi Industrial che si citavano per darsi un tono, ma hanno la facilità di ascolto di una ristrutturazione edile. Ci sono due putti biondissimi, dall’ampia capigliatura natural, la pelle lattea. Danzano e creano delle geometrie. Si accorpano dando vita a nuove creature piene di arti, le lingue dardeggiano, gli occhi roteano come in un tributo a Durga e a Shiva. Adamo ed Eva si baciano lungamente, simmetrici, in bilico su un solo piede. Poi la musica aumenta di ritmo, gli abitanti del giardino incantato si accoppiano un po’ a caso: se la spassano. Finalmente, la compagnia imbraccia degli strumenti trovati tra gli alberi ed intona l’aria The Garden, allusiva e metaforica. E’ quando comprendiamo perché abbiano scelto la carriera di ballerini.
    Dopo, nel racconto della caduta e di un successivo, ritrovato, comunitarismo, i nostri si denudano e si pittano a vicenda i volti, i seni, le braccia. La pelle bianca e quella scura si fanno indaco, zafferano, cenere. Le crespe barbe s’incendiano col rosso, come sannyasin.
    L’opera si ispira a Jeronimus Bosch e possiamo dire riuscito l’esercizio: nei toni grotteschi, nella palette di colori. Per il resto, l’autrice intende parlarci delle utopie millenaristiche, comunitarie, cresciute in Olanda con la riforma ed anche dell’ecologia, del destino del pianeta.
    Riesce a convincere, però, solo quando tira e leve del kistch, degli hipppies sopravvissuti o fuori tempo, di Bollywood e degli ashram di borgata. Ma per tutto questo c’era già Hair. O no?
    Marco Guarna
    Dannzaeffebi meets REF16

    Nov 22, 2016 @ 15:38:22

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