Orfeo ed Euridice al San Carlo: metafora del lutto secondo Karole Armitage
Creata nel 2003 per il San Carlo, è nuovamente inscena al Teatro San Carlo la versione di Karole Armitage dell'Orfeo ed Euridice di Gluck, spettacolo che valica il confine tra lirica e danza. Accostando al canto l'esternazione del gesto drammaturgico, Karole Armitage conduce l'opera ad un punto di perfetto equilibrio tra voce e corpo, un corpo che parla un linguaggio antropologico ed introspettivo, tramutando la tragedia del mito in metafora del lutto.
Dal 27 maggio al 4 giugno 2015 torna sul palcoscenico del Teatro San Carlo di Napoli, Orfeo ed Euridice, opera-balletto per la regia e coreografia dell’americana Karole Armitage, autrice tra le più rivoluzionarie e ribelli del panorama ballettistico contemporaneo.
Fondatrice della compagnia Armitage Gone! Dance, ampiamente apprezzata dal pubblico glamour newyorkese, è nota in Italia oltre che per la partecipazione a festival di rilievo internazionale, soprattutto per aver diretto il MaggioDanza fiorentino (1995-99) e la Biennale Danza di Venezia nel 2004.
Balanchiniana di formazione ed iniziata al post-modernismo di Cunningham negli anni Settanta, la Armitage nei propri lavori mantiene i fondamenti accademici del balletto classico esasperandone i virtuosismi tecnici e le prospettive spaziali, accelera in modo parossistico i movimenti e sconvolge il rapporto tra musica ed arti visive.
Nel 2003, su invito dell’ex- Sovraintendente Gioacchino Lanza Tomasi, la regista statunitense crea per il coro ed il corpo di ballo del Massimo napoletano una propria versione dell’Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck su libretto originale di Ranieri De’ Calzabigi, “azione teatrale per musica” rappresentata per la prima volta al Teatro di Corte di Vienna il 5 ottobre 1762.
La sera del 30 maggio 2015 ad interpretare il ruolo di Orfeo, la voce limpida del contralto Marina De Liso unita al corpo scolpito del primo ballerino Ertrugrel Gjoni, mentre l’ombra di Euridice rivive grazie alla potenza canora del soprano Alessandra Marianelli e agli assoli ampi ed eleganti della danzatrice Roberta De Intinis.
Valicando il confine tra lirica e danza, accostando al canto l’esternazione del gesto drammaturgico, Karole Armitage conduce l’opera ad un punto di perfetto equilibrio tra voce e corpo, un corpo che, servo della musica più che della trama, parla un linguaggio antropologico ed introspettivo, tramutando la tragedia del mito in metafora del lutto.
Svuotato delle fredde scenografie settecentesche lo spazio scenico necessita esclusivamente degli attori per strutturare la favola, trasportando il protagonista all’interno di un viaggio psicoanalitico volto ad affrontare e superare l’insostenibile dolore della perdita.
Sia nel primo che nel secondo atto il disegno luci e l’ambientazione sono onirici, quasi immateriali, così come evanescenti e sublimi si rivelano l’innalzarsi dei cori ed i pas de deux degli amanti ballerini.
I fondali disegnati da Brice Marden (visioni di linee labirintiche) tracciano i percorsi mnemonici dell’eroe i quali si dispiegano nel passaggio dal mondo terreno a quello metafisico sottolineando l’impalpabilità di desideri ed emozioni.
L’Averno o meglio il sottosuolo, è la regione più profonda dell’anima, luogo in cui ci si confronta con i propri demoni e la scenografia pensata da Marden è volutamente caotica.
La Armitage si lascia guidare dai ritmi ascensionali dell’opera gluckiana per ideare uno schema coreografico intricato e suggestivo in cui i tersicorei (che interpretano le Furie in abito rosso fuoco) si lanciano in opposizioni ed incroci multidirezionali, descrivendo il perimetro della performance canora.
La linearità delle sequenze danzate si semplifica nel secondo atto, momento dell’entrata di Orfeo nei Campi Elisi alla ricerca della sua sposa fra le Ombre Felici.
Il disegno sul fondale si sviluppa verticalmente e diventa più essenziale, incorniciando le figure ed avvolgendole in una luce bianchissima che richiama gli echi del coro, il quale si presta ad essere doppiatore verbale del movimento.
In Orfeo di Karole Armitage la danza assume il compito di materializzare l’astratto, rendere tangibile quell’amore e quella passione che i due amanti, nel momento dell’incontro nell’ oltretomba, sono costretti a trattenere per volere divino, tra l’altro annunciato sarcasticamente dal dio messaggero Amore (Aurora Faggioli).
Il lieto fine gioioso del Calzabigi ribalta la catastrofe favorendo la vittoria dell’amore sulla morte ed è in quest’ultima scena che si evidenzia a pieno l’ambivalenza che contraddistingue la coreografa americana.
La Armitage infatti inserisce nel finale gli allievi della scuola di ballo, donando all’opera un tocco di genuinità, innocenza e naturalezza, caratteristiche essenzialmente estranee alle sue composizioni stilizzate e “trasgressive”. Un interessante esempio di come modernità e classicismo, realismo ed idealismo, possano coesistere in armonia.
Andrea Arionte
2/6/2015
Foto di Francesco Squeglia