La ricerca della propria identità tra le contraddizioni della vita nella danza di Lali Ayguadé: Kokoro a REf16.
Romaeuropa festival ha presentato al teatro India Kokoro, la prima opera lunga della catalana Lali Ayguadé, selezionata tra i coreografi più promettenti del circuito europeo di Areowaves. Kokoro è un lavoro sulla trasformazione che caratterizza tutta la vita, sulla costruzione della propria identità, sul rapporto tra spazio privato e sociale. E prima della performance il pubblico ha avuto la possibilità di “riscaldarsi” con gli artisti, facendo esperienza diretta del linguaggio coreografico utilizzato in scena.
Mente e cuore, due concetti diversi, diametralmente opposti ma che la lingua e cultura giapponese riunisce usando un unico termine: Kokoro. La parola è infatti adoperata per indicare la mente e tutte le attività umane che partono da essa; ha perciò il pregio di riunire il pensiero, la razionalità e la volontà con i sentimenti, la passione e l’anima. Ed è da questo binomio che parte l’opera di Lali Ayguadé portato in scena con successo il 4 novembre 2016 al Teatro India di Roma per Romaeuropa Festival 2016. Lo spettacolo è inserito nell’ambito della partnership di DNA danza nazionale autoriale (progetto di Romaeuropa rivolto alla diffusione dei lavori provenienti dalla nuova generazione della danza) con Aerowaves, il network che coinvolge 33 paesi in Europa per supportare e promuovere i nuovi coreografi emergenti.
Artista catalana, Lali Ayguadé a trentasei vanta già un percorso di importanti collaborazioni internazionali. Formatasi alla scuola di Anne Teresa De Keersmaeker, dopo quattro anni come interprete crea la sua prima coreografia, il solo Silence, con la supervisione di Wim Vandekeybus. Nel 2003 entra a far parte dell’Akram Khan Company come membro permanente, producendo e interpretando alcune delle sue opere più importanti (Kaash, Ma, Bahok, Vertical Road e Confluence). Ulteriori sinergie vengono realizzate con Roberto Olivan (Enclave dance Company), Hofesh Shechter, Anton Lachky (co-fondatore di Les SlovaKs Dance Collective), gli acrobati Joan Ramon Graell e Joan Català, Young Jin Kim. Nel 2010 l’artista è nominata “exceptional dancer” dal premio della critica di Londra; nello stesso anno fonda la sua compagnia a Barcellona con cui realizza Kokoro, sua prima coreografia di lunga durata.
La performance di Kokoro al Teatro India è stata preceduta da un “warming up”: gli spettatori hanno potuto scaldarsi assieme agli artisti, facendo esperienza concreta del linguaggio coreografico e di alcune delle sequenze che sono state riportate nello spettacolo. In questo modo il pubblico ha avuto modo di sperimentare direttamente, attraverso la pratica, parte di quelle frasi di movimento che sono state riprodotte in seguito in scena, per comprendere appieno l’atto performativo.
Il riscaldamento avviene con il ballerino Diego Sinniger de Salas, che apprezzeremo sul palco la sera stessa, e prende spunto da elementi di improvvisazione in cui i temi sono: bloccare/liberarsi/provocare moto. I partecipanti volontari hanno il compito di formare delle coppie dove ciascuno dei partner, a turno, deve “ingabbiare” l’altro che, a sua volta liberandosi dalla presa, deve generare un movimento coinvolgendo lo stesso compagno. Lo schema della sequenza viene poi reiterata allargandola all’intero gruppo: è chiaro come il movimento porti a una continua trasformazione in cui tutti gli attori appaiono deterministicamente collegati. Terminato il warming up si comincia a riflettere: ci viene in mente che gli immobilismi in cui siamo costretti (o in cui noi stessi da soli ci costringiamo) non durano a lungo e di continuo ci trasformiamo in cosa nuova, influenzando anche gli altri e il proprio destino.
Inizia lo spettacolo e la scena appare diafana, divisa in due ambienti diversi e separati. In primo piano, ma in una posizione più marginale e laterale del palcoscenico, spunta una poltrona vecchiotta e dalla forma familiare; ciascuno potrebbe riconoscerla come proveniente dal salotto della propria casa. La parte centrale del palco è invece delimitata da tre panche di legno, simili a quelle in uso nelle chiese: formano delle file e si estendono per larga parte della sala. Appare evidente che le metafore portate in scena sono quelle dello spazio privato e intimo (la poltrona, che occupa per questo una superficie più piccola ma più vicina allo spettatore) contrapposto allo spazio sociale, la comunità con cui ci confrontiamo e a cui non possiamo sottrarci (identificata con le panche). Spazi che presto iniziano a muoversi assieme ai quattro protagonisti della pièce e a trasformarsi; sul palco tre uomini e una donna molto diversi tra loro, nei loro aspetti fisici, nelle proprie vesti, ma ancor più nei caratteri e personalità che si evincono dalle profonde espressioni dei loro volti e movimenti.
Il complicato e affascinante dialogo tra i diversi stili artistici dei perfomer (ciascuno con i propri particolari background tra hip hop, urban dance, acrobazia circense, danza contemporanea, drammaturgia teatrale) si risolve con ironia e sobrietà attraverso l’uso di improvvisazioni che hanno il pregio di mescolare e unire le varie lingue. Potente e riconoscibilissima l’influenza del lavoro condotto dalla Ayguadè con Akram Khan in alcune delle sequenze realizzate; ne sono esempio i dosaggi ritmici durante i vari passaggi e i movimenti delle mani parlanti.
Il fatto che sulla scena ci siano dei ballerini professionisti, desumibile solo dai virtuosismi delle sequenze messe in atto, è un aspetto assolutamente secondario nella nostra percezione di spettatori; ci troviamo prima di tutto di fronte a delle persone con la loro straordinaria umanità, impeccabili interpreti della vita che giocano a trasformarsi l’uno con l’altro interrogandosi sul valore dell’esistere.
Difficile non immedesimarsi nelle situazioni e nei ripetuti gesti quotidiani simulati dai quattro ballerini; assistiamo a un visionario percorso sull’inevitabile trasformazione umana realizzato attraverso sequenze in cui il contrasto tra la fragilità e la forza è acceso da passaggi di diversa energia dei corpi. Questi corpi che esprimono tutta la passione nelle ondulazioni delle loro carni, si trasformano ora in bambole inerti mosse da forze esterne, ora in automi irriconoscibili, scimmie addomesticate che hanno perso la via e non sanno tornare a casa.
Kokoro è uno spettacolo intriso di spiritualità, inteso come cammino di ricerca verso l’assoluto, fuori e dentro di se’. Il dilemma diventa trovare una strada tra le paure e le contraddizioni della vita, costruendo la propria identità nel rispondere a domande quali: dove si trova l’amore? Si è capaci di amare davvero? Crediamo in Dio per avere una speranza e non morire? Che cos’è la perfezione, solo un punto dove gli opposti si incontrano? …. L’unica cosa di cui si ha certezza evidente è il cambiamento a cui è impossibile opporsi. Le cose si trasformano, si modificano, si alterano, e invecchiando degradano.
Con le note strazianti del canto Motherless child si conclude Kokoro; in scena la nostra ballerina è ormai una donna trasfigurata dalla vecchiaia che, invalida, ha difficoltà anche a mimare i suoi movimenti, ma che rimane presente, intensa, lucida. E se tutto si muove e accade, forse la nostra ragione di vita è solo andare avanti, contestando i mutamenti dei corpi e perseverando in un immutato motus animi. Perché anche se andiamo senza direzione comunque continuiamo ad andare, ed è questa la nostra identità.
Giannarita Martino
@giannarita
09/11/2016
Foto: Kokoro di Lali Ayguadé, ph. Clara Ten.
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Lorenzo Vanini
Lali Ayguade presenta al Festival Romaeuropa Kokoro, un lavoro dove teatrale si mescola al danzato, dove umano si mescola all’animale, non a caso il titolo giapponese racchiude i due aspetti fondamentali dell’essere umano la”mente” e il “cuore”.
Proprio l’essere umano, con le sue più varie sfaccettature, è il centro di questa prima opera della coreografa catalana. Un susseguirsi di paesaggi e situazioni, dove i danzatori sono sia attori che spettatori, facendo talvolta cadere la parete tra palco e pubblico, attraverso metafore moderne, molto chiare e facilmente comprensibili.
Il concetto espresso è chiaro e la danza molto fisica e impulsiva, lo rende ancora più usufruibile, nonostante a volte risulti un po’ troppo ripetitiva. L’aver voluto mettere in scena troppi elementi è, forse, l’unica pecca dello spettacolo, che nel complesso, però, scorre bene senza troppi intoppi, coinvolgendo lo spettatore fino all’ultimo e provocando sensazioni diverse, come nell’ultima scena dove la danzatrice, passando da un danzatore all’altro, invecchia progressivamente, fino ad arrivare sulla poltrona, esprimendosi soltanto attraverso il suo corpo, che il pubblico vede velocemente cambiare, crescere, vivere e infine morire.
Per concludere, mi auguro che questo sia il primo di una lunga serie di lavori per la coreografa catalana, sperando che intraprenda una strada, ancora più personale, lasciando dietro di lei le personalità importanti del suo curriculum.
Lorenzo Vanini
Danzaeffebi meets #REf16
Nov 09, 2016 @ 20:38:08