Kreatur di Sasha Waltz apre REf17: una riflessione sul potere, sul controllo e sulla libertà.
Il Romaeuropa festival 2017 si è aperto con l’acclamata coreografa tedesca Sasha Waltz e con la sua ultima opera: Kreatur in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma. Un’opera che ha posto all’artista nuove sfide, portandola a sperimentarsi con percorsi nuovi e nuove collaborazioni. Kreatur è un’opera potente che indaga la fragilità umana e si interroga sulle sfaccettature del potere, sul controllo e sulla libertà con una risposta alle proprie paure.
Il potere: individuale e collettivo. Il potere che si esprime verbalmente, fisicamente. Quello subdolo che si traduce con l’influenza manipolatoria sui comportamenti, che corrode la psiche e mina l’equilibrio interiore. Come viene proposto e agito il potere? Come si risponde al predominio e all’aggressività di un dominante? Come elaborare la sofferenza dovuta alla sopraffazione? E ancora: come rispondere a quei poteri invisibili, asfissianti, persistenti, che sfruttano le ansie e paure di una comunità limitandone la libertà di movimento, di pensiero, di re-azione?
Sono questi gli spunti che hanno guidato l’ideazione di Kreatur l’ultima opera dell’acclamata coreografa tedesca Sasha Waltz che, in prima italiana, ha aperto il 32esimo Romaeuropa Festival al Teatro Argentina. Un’opera complessa e ricca di elementi interpretativi che percorre narrative diverse dalle sue precedenti, arricchendo la maturità produttiva di un’artista già considerata come l’erede di Pina Bausch; quasi un regalo dovuto alla sua compagnia Sasha Waltz & Guests in occasione del suo 25esimo anniversario. Un lavoro che in cui l’artista torna al corpo dei danzatori e la coinvolge in nuove sfide, portandola a sperimentare percorsi per lei finora sconosciuti forte della collaborazione con tre nomi visionari: la fashion designer olandese Iris Van Herpen che affida le sue creazioni a tecniche e materiali innovativi (lasercutting, stampa 3D, materie organiche, solo per fare un esempio), il light designer Urs Schönebaum, noto per il suo rigore nella separazione buio-luce con l’uso di un’illuminazione netta, pulita, radicale, infine il trio berlino-newyorkese Soundwalk Collective, veri e propri antropologi musicali che utilizzano suoni e musiche per restituire memoria a spazi effimeri di rilevanza storica.
Il risultato sono 14 danzatori seminudi, coperti (poco) da costumi leggerissimi, quasi sculture impalpabili che lasciano scorgere corpi in continua trasformazione. La scenografia, minimalista, lascia parlare in primo luogo questi corpi sul palco; sono loro che creano un paesaggio legato alla danza che va a comporsi man mano. In scena pochissimi frammenti architettonici tra cui una ripida scala bianca che termina in un alto muro e un’asse sottile di legno, utilizzata solo in alcuni quadri drammaturgici. Gli spazi vengono così definiti dagli stessi spostamenti dei ballerini, che, in molte parti dello spettacolo, compongono statue umane dalla fotografia bellissima, intrecciando plasticamente corpi, muscoli e sudore. Spazi perciò visibilissimi ma non materiali: si condensano e si trasferiscono a seconda delle sequenze dei performer. La musica infine è montata con rumori e suoni catturati durante alcune visite fatte da Sasha Waltz con la band a luoghi del secolo scorso fortemente simbolici, associati al concetto di potere, controllo e libertà, a partire dalla prigione berlinese della Stasi, passando da campi di concentramento fino ad alcune ex fabbriche e centrali elettriche dismesse, a carpire il ricordo di quanto accaduto tempo fa. Il tutto dà vita a “creature” che portano in scena una umanità vulnerabile, timorosa verso il diverso e angosciata per un futuro sconosciutamente violento.
Lo spettacolo è concepito come il passaggio attraverso quattro momenti cardine che raggruppano contenuti narrativi e coreografici ben distinti, con piccoli spazi anche per l’improvvisazione; quattro atti dalla durata complessiva di 95 minuti che non lasciano tirare il fiato allo spettatore, tanta la ricchezza degli elementi drammaturgici in gioco.
L’inizio vede in gioco creature primordiali avvolte in bozzoli bianchi che appaiono muoversi cercando una direzione, inglobandosi l’uno con l’altro e facendo già scorgere elementi di una supremazia archetipica. I corpi partoriti dai bozzoli sono ora pezzi di carne e muscoli che appaiono montarsi e smontarsi in un gioco ottico dovuto a lastre specchianti mobili e flessibili che avvolgono i danzatori deformandoli. I movimenti sono ancora primitivi, scattosi, agitati da fremiti e sussulti, le torsioni richiamano gli esseri invertebrati ma già pronti all’evoluzione della specie.
Nel secondo quadro è l’elemento gruppale predominante: i danzatori si muovono a schiera indicando ruoli di egemonia predefinita, con movimenti prepotenti, curvi e avvolgenti, sono pronti a impossessarsi del mondo. Il culmine della scena si ha quando una ballerina sale sulla scala presente fermandosi sul suo ciglio più estremo e fissando il vuoto davanti; viene quindi man mano raggiunta da tutti gli altri che si ammassano nello spazio ristretto, aggrappandosi l’un l’altro per sostenere il proprio vicino ma allo stesso tempo per non cadere; mentre alcuni scivolano in basso altri riescono a salvarsi scavalcando il muro confinante. Vi prego, se soffrite di vertigini (come me) cercate sostegno nella vostra poltrona… confesso ho dovuto combattere con un principio di capogiro insorto nell’osservarli in quella posizione così precaria!
Nella scena successiva ci troviamo ora di fronte a movimenti più umani, fluidi e consistenti; manifestano il progresso nel modo di comunicare e comunicarci le proprie storie, alternando appartenenza alla comunità a momenti di isolamento. Un’asse di legno passa di mano in mano diventando ora una croce in cui essere inchiodati ora la pertica a cui aggrapparsi, ora il totem da venerare. È un oggetto che si presta alle diverse interpretazioni per lo spettatore e che si riproporrà poi nelle scene conclusive, quasi a farne da filo conduttore (“Non chiedetemi cosa significa – tuona la Waltz interrogata sull’attribuzione di un suo significato – perché ognuno può vederci quello che vuole, come è giusto per ogni spettacolo… posso solo dirvi che nella compagnia le abbiamo dato un nome: Rebecca!”).
Nel passaggio alla parte più inquietante dell’opera il male appare materializzato nelle vesti di una figura nera da cui partono aculei aggressivi a cercare la migliore vittima sacrificale. La “bestia” sceglie tra soggetti inermi, nudi, posizionati in una angosciante fila in attesa dell’ultima ora. Fortissimo il richiamo a vittime di guerra, campi di sterminio, in una atmosfera che ora è diventata surreale. Ma il male gioca bene le sue carte apparendo anche seduttivo alle vittime designate che, prima della loro morte, iniziano a danzare con l’oscura figura, sullo sfondo delle debolissime note della Shéhérazade di Rimsky-Korsakov mescolate alle potenti sonorità elettroniche. Frequenti i transiti di ruolo e le inversioni da vittima a carnefice, da soggiogato e soggiogante; intenzione che pervade tutta l’opera e che appare ben visibile, ancora una volta, con la trasformazione di quei corpi che manifestano cosa succede quando vengono violati dal controllo del potere o quando lo esercitano essi stessi. Situazioni capovolte che i personaggi sul palcoscenico sperimentano a seconda della situazione in cui si trovano; e così anche la performer che sveste adesso i panni della temuta nera figura appare fragile mentre si avvia alla conclusione, il cui inizio appare segnato dall’iconica canzone Je t’aime… moi non plus utilizzata dalla Waltz per indurre gli spettatori a una sorta di estraniamento con il precedente vissuto. Lo spazio è adesso riservato tutto a una sorta di farsa erotica dove niente è dato per sottinteso, che lascia fuori da ogni discorso l’amore per tornare forse a quell’istinto bestiale che ha segnato l’inizio dello spettacolo.
E la scena finale sembra rispondere in pieno alla domanda che pone quest’anno il Romaeuropa festival (where are we now?): le luci si chiudono su di un danzatore che torna a proteggersi dentro la stessa lastra specchiante utilizzata all’inizio e che sembra voler dire “mi trovo qui, adesso, nel mio personale posto interiore in cui ritrarmi se ho paura e che mi dà quella forza di cui ho bisogno per affrontare la vita”.
Giannarita Martino
Twitter @giannarita
Foto: 1. Sasha Waltz & Guests, Kreatur di Sasha Waltz, ph. Ute und Luna Zscharnt; 2. Hwanhee Hwang in Kreatur di Sasha Waltz, ph. Ute und Luna Zscharnt; 3. Sasha Waltz & Guests, Kreatur di Sasha Waltz, ph. Sebastian Bolesch; 4. Sasha Waltz & Guests, Kreatur di Sasha Waltz, ph. Ute und Luna Zscharnt; 5. Sasha Waltz & Guests, Kreatur di Sasha Waltz, ph. Sebastian Bolesch; 6. Annapaola Leso, Sasha Waltz & Guests, Kreatur di Sasha Waltz, ph. Luna Zscharnt; 7. Sasha Waltz & Guests, Kreatur di Sasha Waltz, ph. Ute und Luna Zscharnt; 8. Hwanhee Hwang in Kreatur di Sasha Waltz, ph. Ute und Luna Zscharnt; 9. Clementine Deluy, Sasha Waltz & Guests, Kreatur di Sasha Waltz, ph. Sebastian Bolesch; 10. Sasha Waltz, ph. Ute Zscharnt e Alexander Krack; 11. Iris Van Herpen, ph. Jean Baptiste Mondino.
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simonettasan
Masterclass compagnia Sasha Waltz & Guests – 23 settembre Roma, Dance Art Faculty.
La masterclass tenuta da Davide Camplani (uno dei tre danzatori italiani della compagnia Sasha Waltz & Guests) inizia nella maniera classica, la presentazione dei 25 partecipanti. Salvo che subito se ne deduce l’originalità dalla richiesta di associare il proprio nome a un solo termine che riassuma il perché della decisione di partecipare a queste due ore intense.
Le parole sono molto chiare e conducono immediatamente in altra dimensione. Come partenza del viaggio è incoraggiante e stimolante. Curiosità, passione, sperimentazione, contaminazione, stima, conoscenza, esplorazione, ricerca, prova, esperienza, anima, costruzione, sperimentazione. Per usare il pensiero di Angela: tutti qui per “guardare oltre”. E allora eccoci pronti a immergerci, con i danzatori, in una dimensione di ricerca personale e collettiva, in un’esperienza di condivisione e di totale contaminazione. Questa parola mi piace molto. Si addice alla mia persona e al mio essere estraneo, per lo meno professionalmente, a questo mondo di corpi e note che pur mi affascina da sempre. La prima parte della classe mi fa andare alle mie lezioni regolari di yoga. I piedi ben ancorati a terra, a quella madre terra da cui prendiamo le radici, sorreggono un corpo che si ascolta, che ascoltiamo (o almeno cerchiamo), a occhi chiusi e in equilibrio. Siamo alle ricerca di un equilibrio, con noi, fra noi, fra noi e il mondo. “La musica è il sostegno della struttura ossea”, dice a tutti Davide. Le ossa, questa essenzialità, la nostra dualità fatta di percezione del fuori e del dentro di noi. Il linguaggio del corpo parla chiaro, meno muscoli, pur accarezzati per ritrovarsi, e più uso degli organi interni. Entriamo nelle articolazioni, nella dimensione dell’ossatura. Dentro. Andiamo dentro. Addentriamoci sempre più in noi. La mente e la creatività partecipano a questa ricerca. Non noto movimenti coordinati, i ballerini sembrano invertebrati. L’energia interiore arriva, si sprigiona piano piano, libera, incontrollata ma sempre rispettosa dell’altro, del vicino. Da qui, infatti, si passa al lavoro di gruppo, ognuno con la sua individualità che dà spazio ai movimenti e alla libertà degli altri. Ci si ascolta, ci si segue, ci si coordina, non si corregge la direzione dell’altro ma, nel rispetto, lo si orienta per esplorare l’altro che siamo anche noi. Le memorie dei luoghi e dei suoni che essi hanno sentito e dai quali si sono fatti abitare e vivere (in riferimento alla musica dei newyorchesi Soundwalk Collective dello spettacolo dell’Argentina) hanno anch’essi un ruolo nel rispetto del passato. Passato e presente si intrecciano, si parlano, si comprendono, si ascoltano. Siamo, peraltro, in un vecchio lanificio …
Il momento più bello è, senza dubbio, quello del gruppo, l’osservare quell’armonia che viene dall’ascolto e dal rispetto, il poter comprendere come individuo isolato e appartenenza al gruppo si possano in fondo integrate e abbracciare, il poter vedere come la generosità di chi sa suggerire la via riesca far andare il gruppo nella stessa direzione, senza che nessuno sia deputato direttamente a indicare una o quella via. Ci sono più risposte, sempre. Con il dialogo ognuno introduce elementi che il gruppo segue naturalmente. Con tanto di carezza a chiusura della masterclass. Bellissimo.
Simonetta Sandri, Danzaeffebi meets #REf17!
Set 23, 2017 @ 16:08:38
Deborah77
Quando cala il sipario su uno spettacolo – come nel caso di Kreatur al Romaeuropa Festival – da una parte si chiude un cerchio ma dall’altra si apre una finestra sul Mondo.
Si chiude un cerchio perché dopo l’esperienza vissuta a teatro, concretizzi ciò che su l’artista hai sentito, letto, magari immaginato. Tutto sembra più chiaro, ogni gesto visto acquista un valore diverso. Ogni nome ha un volto, un corpo una storia. Ma l’esperienza continua e si entra in contatto con tutta una serie di eventi correlati: le recensioni dei critici, le esperienze di altri spettatori, le chiavi di lettura proposte. E’ uno scambio continuo ed il bello dell’arte. Creare una Comunità appunto.
Entrando nel dettaglio della visione di Kreatur appaiono emblematiche le parole di Davide Camplani, danzatore citato da Simonetta nel suo commento: “La musica è il sostegno della struttura ossea”. E in scena quel prevalere di corpi quasi nudi te ne fanno intravvedere la struttura quasi completamente. Essa si muove per e con la musica. Sono corpi diversi: possenti, esili, agili, scattanti, delicati in un equilibrio perfetto. E’ vera la sensazione di mancanza di fiato in chi guarda, catturato da quadri ipnotici, veloci a volte violenti. La tensione si libera solo a fine spettacolo, in un applauso finale liberatorio. Lungo e fragoroso. Un nuovo cerchio si è chiuso, una nuova magia rinnovata.
Set 25, 2017 @ 13:34:34
Moscarda
Kreatur
Di solito uso un criterio empirico e nient’affatto scientifico per giudicare quello ciò che ho visto su un palco scenico. Semplicemente accade che uscendo dal teatro mi chieda: “Quante volte, durante lo spettacolo, ho pensato ai fatti miei?”.
Se ad un certo punto mi è venuto in mente il frizzantissimo appuntamento dall’igienista dentale della settimana a venire, se con un volo (più transoceanico che pindarico) sono retrocessa col pensiero alla delusione per il regalo del mio settimo compleanno che inesorabilmente non aveva le sembianze di un pony, se il fruscio prodotto dall’accavallamento della gamba della spettatrice vicina ha attirato tutta la mia attenzione producendo una gran serie di pensieri antisociali, beh ecco, se tutto ciò è accaduto posso concludere quello che ho visto non era poi granché.
Con l’opera di genio è diverso.
Nel paragrafo 49 della Critica del Giudizio, Kant ci dice che genio è colui il quale porta innata in sé la capacità di presentare idee estetiche “dove per idea estetica intendo quella rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto, senza che un qualche pensiero determinato, cioè un concetto, possa risultare ad esse adeguato; e che, di conseguenza, nessuna lingua può completamente esprimere e rendere comprensibile”.
Ebbene, Sasha Waltz ci invade, ci sommerge, ci sazia, ci bersaglia di idee estetiche.
Dal buio iniziale tagliato da un provvidenziale orizzonte luminoso, fino al buio finale in cui cadiamo increduli e ancora impreparati, al nostro pensiero non viene data possibilità alcuna di distrazione. Una costruzione sinestetica totale e totalizzante, coercitiva e tenera, espande, per tutti i novanta minuti di Kreatur, l’ immaginazione dello spettatore.
La nostra sensibilità respira, il nostro occhio si pre-occupa: inquietato e sollecitato corre sulla scena, ora si arrampica sui corpi, ora si appunta negli angoli, ora è accecato, confuso, di colpo gettato nell’oscurità e poi di nuovo lusingato da immagini quasi felliniane, da silouhettes serigrafate nel metallo dei costumi, visionari e perfetti, creati da Iris Van Herpen.
Sasha Waltz fa suonare i corpi, danzare le luci, brillare la musica, pulsare gli abiti: il risultato è un composto chimico che, come l’acqua, trascende le proprietà degli elementi che lo compongono ed arriva così ad essere qualcosa di nuovo, unico e vivo. Irresistibile.
Già dal titolo il nostro intelletto viene disarmato, tagliata ogni connessione salvifica con concetti precisi, invalidata ogni associazione tradizionale: “Creatura”. Chi è questa creatura? O forse dovremmo dire “cosa è” questa creatura?
Non lo sappiamo (e Waltz sembra dirci: “forse non potremo saperlo mai”) ma, silenziosi, osserviamo la sua storia tessersi sulla scena.
Da principio, come nell’obbiettivo di un microscopio, si materializzano sul palco degli esseri primordiali, virus che magneticamente si attraggono, migrano da punto a punto, si scindono e si riuniscono di nuovo; comincia così un’evoluzione al termine della quale ognuna di tali creature avrà abbandonato il bozzolo ovoidale in cui è racchiusa; casa provvisoria, leggera e impalpabile, la crisalide racchiude il corpo facendo dunque di esso la propria anima.
Primo cortocircuito: il corpo è anche e contemporaneamente anima.
Mortifica il corpo e avrai un’anima docile, annichilisci un’anima e avrai un corpo ubbidiente: il tema ispiratore e portante, quello del “potere”, è invisibilmente presente, in nuce, fin dal primo istante.
Incede immediatamente dopo, la sequenza che la stessa coreografa ha affermato essere stata la più ostica al livello di costruzione coreografica: la sequenza “impulso-amputato”. Le quattordici diversissime corporature dei ballerini vanno a comporre un’ unica macro-materia palpitante capace di rispondere ad un automatismo che ne armonizza le membra e ne sincronizza i movimenti; qui la musica del Soundwalk Collective pare provenire dall’intestino stesso di questo essere collettivo e simbiotico, pare imprimergli, da qualche antro cardiaco, una scarica elettrica atta a percorrerlo e destinata ad essere amputata paralizzando, per un istante, le funzioni motorie. Ci vengono donati, così, preziosi fotogrammi incastonati nelle pause musicali, cristallizzati nella luce sottile.
Il Leviatano danzante infine si smembra ed insieme ad esso sembra sciogliersi il potere collettivo sui suoi componenti particellari. Lo spazio torna ad essere plasmato dalle relazioni asimmetriche tra i corpi dei danzatori, sono soprattutto i loro rapporti mutevoli, coattivi, possessivi, cooperativi, erotici, sessuali, a condensarlo e rarefarlo di volta in volta mentre le strutture architettoniche vengono ridotte all’osso: “Volevo uno spazio visibile ma non materiale”.
Ed è tale spazio, muto, a parlarci del controllo che perpetuamente viene esercitato da e su di noi, di quelle architetture, percettibili e non, in cui è inserita la nostra esistenza e che tracciano i confini della nostra libertà.
Non a caso alle spalle di Kreatur vi è l’esperienza di un “viaggio” nella prigione di Stasi, compiuto dalla coreografa al seguito di un ex detenuto. Viene quasi naturale pensare al Panopticon, il carcere ideale progettato dal filosofo Jeremy Bentham nel 1791, che permetterebbe ad un solo sorvegliante di vedere in ogni momento tutti i reclusi senza permettere a questi di capire se siano in quel momento controllati o no.
L’ansia che tale sogno totalitario, ossessivo e aberrante, produce in noi, Sasha Waltz ce la incolla addosso avvalendosi degli strumenti coreografici con la destrezza di un demiurgo, portando sulla scena un’umanità ammassata, violentata, tradita, spaventata ma anche eroica, rivoluzionaria e ottimista; mostrandoci quella “creatura” sovrana della Natura inesorabilmente implicata in sovrastrutture, rapporti di forza, contraddizioni e indicandoci continuamente, instancabilmente, il suo risvolto: una vita nuda.
Spogliata come spogliati sono i danzatori, vulnerabile e inerme, che per miracolo si crea ed emettendo l’ultima luce, crepitando come una lucciola, si spegne.
Sara Bruno, Danzaeffebi meets #REf17
Set 25, 2017 @ 13:42:33
ericabravini
Siamo Noi le “Creature” di Sasha Waltz, quei corpi di paure e desideri; Noi, Umani, piccoli risultati più o meno riusciti di un passato, stratificato e testimone, di cui siamo ineluttabilmente autori e partecipi.
La coreografa tedesca indaga l’umanità, le sue malattie, le sue debolezze, con storie antiche e con visioni profetiche, quasi distopiche. Rispetto a molti lavori precedenti, in cui ha interpretato personalmente opere musicali e soggetti preesistenti, spesso tratti dalla tradizione, in Kreatur torna alla musica elettronica dopo 17 anni in un lavoro totalmente originale. I suoni viventi del Soundwalk Collective si sviluppano parallelamente alla danza, e viceversa. Sonorità di memorie e passato, registrate durante visite a campi di concentramento, alla prigione della Stasi e ad ex-fabbriche. Luoghi che ci hanno formato come specie, che fanno di noi ciò che siamo, creature figlie della storia, artefici, mai estranee. Sembrano lontane da ciò, le “creature” della coreografa tedesca, che non hanno ancora apparentemente conosciuto alcuna civilizzazione; non conoscono le architetture geometriche, le antiche rovine, le speculazioni filosofiche e morali. Così si muovono e vivono senza schemi precostituiti, senza estetiche devianti, di puro istinto e pulsioni. Si ritrovano avvolti dalla musica di un passato che non conoscono, con citazioni della Shéhérazade di R. Korsakov, la voce di Patti Smith che ci parla d’amore, e la provocatoria Je t’aime… moi non plus.
L’atmosfera creata dalla coreografia di Sasha Waltz e dalla musica del Soundwalk Collective, appare come rarefatta, sospesa; un non-luogo che nel suo minimalismo scenografico sembra essere lontano ed estraneo all’umano e al suo disegno totalizzante. Appare come un luogo sospeso tra la vita e la morte, un limbo in cui pensiero cosciente e sentimenti non sono ancora definiti. Lo spazio di Kreatur si rivelerà nel mentre il luogo in cui si crea l’umano, il luogo dell’avvenire, del cambiamento, della scoperta, dove si definiscono poteri, gerarchie e proto-società.
Le “creature” figlie della Waltz sfuggono volutamente ad una definizione ufficiale; sono umani all’inizio del tempo e dello spazio, un’umanità artificiale nata in provetta o una rinascita post-apocalittica?
I corpi che popolano questo luogo non sono alieni, non esseri altri, non umani di dimensioni parallele, ma “creature” di carne vera, quella carne nuda che viene esposta, vulnerabile e coraggiosa, alle cadute, alla lotta, agli aculei. Sono carne ed ossa, prima di ogni altra cosa, proprio come noi, sono istinto e natura, e quindi poi la sua contaminazione. Da gemme fragili, a mostri senza pietà, impareranno guerra, dominanza e sottomissione, potere e organizzazione, amore e violenza, impareranno a parlare, a piangere.
Li vediamo nascere da bozzoli soffici e semi-trasparenti, che li proteggono precariamente, se ne liberano e poi vi ritornano, si inglobano l’uno all’altro verso un comune utero materno. Si muovono con pulsioni, scatti, in disarticolazioni indefinite; avanzano incerti, spaventati ma verso una meta, come un gruppo di mendicanti, con le mani cercano qualcosa, in quello spazio in cui si sono ritrovati, cercano di comprenderlo, di comprendersi.
Sono ossa che si muovono, ci ha spiegato Davide Camplani durante il Workshop sul lavoro della Waltz; irregolari e antiestetiche forme, create dalla percezione e quindi dalla reazione di ossa, e articolazioni, non dalla forza muscolare eccessiva e fine a sè stessa. Il risultato sono architetture umane instabili, accumularsi di frammenti corporei, immagini sovrapposte della stessa materia.
Da gesti nevrotici e incontrollati, si delineano movimenti più definiti, armonici. L’irregolarità del corpo, delle forme nello spazio e nel tempo, si trasforma in unisoni. In ritmi regolari e ossessivi avanzano, come armate all’attacco, scandiscono ritmi di battaglia. Imparano la lotta alla sopravvivenza, a rinunciare, ad affrontare, a riconoscersi nel gruppo, a fuggire da esso.
Erica Bravini
Set 26, 2017 @ 23:47:44
antoninobu1
Sono andato a vedere Kreatur di Sasha waltz carico di aspettative. Struttura coreografica efficace con un perfetto utilizzo dello spazio; giusta interpretazione fisica ed emotiva dei danzatori; costumi e musica di livello superlativo.
Nessuna aspettativa è stata delusa!
Soprattutto, però, mi sono emozionato per la grande capacità evocativa dei movimenti coreografici: dai più semplici quasi solo accennati ai grandi movimenti di gruppo; e dei quadri statici e coreografici che in alcuni momenti sono risultati commuoventi.
Antonino Bua
Set 27, 2017 @ 22:49:41