La recensione

Forsythe / Inger / Blanc: convince il Corpo di ballo dell’Opera di Roma nel trittico contemporaneo

Dal 25 febbraio al 3 marzo 2022, il Corpo di Ballo dell’Opera di Roma, diretto da Eleonora Abbagnato, è tornato in scena con il trittico contemporaneo Forsythe / Inger / Blanc: in programma, “Herman Schmerman”, opera del 1992 del coreografo americano, per la prima volta sul palcoscenico del Costanzi, “Walking Mad”, creazione del 2001 di Johan Inger, e un nuovo titolo, “From Afar” del francese Nicolas Blanc su musica di Ezio Bosso. Una serata composita, che ha messo in luce la versatilità stilistica e l’abilità interpretativa dei danzatori. Applausi per i protagonisti, tra i quali spiccano l’étoile Susanna Salvi, i primi ballerini Michele Satriano, Alessio Rezza e Claudio Cocino, Marta Marigliani, Giacomo Castellana, Annalisa Cianci e Jacopo Giarda.

È andata in scena venerdì 25 febbraio 2022, al Teatro Costanzi di Roma, la serata Forsythe / Inger / Blanc, secondo titolo nella stagione di balletto del Teatro dell’Opera di Roma (in replica fino al 3 marzo 2022 per un totale di sette recite). Formula intelligente, quella del trittico è diventata nel tempo una consuetudine molto attesa, nonché una ‘sfida’ per i danzatori della compagnia, stimolati dalla direttrice Eleonora Abbagnato a diversificare stile e interpretazione di fronte alle opere di grandi maestri della coreografia contemporanea.

La scelta della direttrice – sostenuta oggi dal nuovo sovrintendente Francesco Giambrone – è caduta su tre titoli molto diversi tra loro: a partire da Herman Schmerman del genio americano William Forsythe (un titolo con cui l’ensemble capitolino si confronta per la prima volta), passando per Walking Mad, gioiello coreografico dello svedese Johan Inger, e concludendo con la prima assoluta di From Afar, nuova creazione per il Balletto dell’Opera di Roma commissionata al coreografo francese Nicolas Blanc. Scelte che mirano alla “costruzione del repertorio del futuro” – per usare l’espressione di Eleonora Abbagnato in conferenza stampa – e a ripristinare quella normalità di lavoro turbata da due anni di emergenza pandemica. Ed è forse proprio per ribadire gli obiettivi di qualità e ripresa, che la direttrice non ha esitato ad esporsi con un programma arduo, che “alza l’asticella” a favore di un più lungimirante progetto di ampliamento del repertorio.

Ad aprire la serata sono le linee, le curve e la dinamica che non concede un attimo di tregua agli interpreti, di Herman Schmerman, concentrato di fulminea bellezza firmato da William Forsythe nel 1992 (oggi dunque al suo trentesimo anniversario dalla prima rappresentazione con il New York City Ballet). Indossando i costumi di Gianni Versace, i ballerini danzano sulle musiche originali di Thom Willems, compositore olandese, già autore di storici successi in collaborazione con Forsythe dai tempi di Francoforte (tra gli altri: In the Middle, Somewhat Elevated, del 1987, e One Flat Thing, Reproduced del 2000).

Il titolo della creazione, quasi uno scioglilingua, viene fuori da una noir comedy dei primi anni Ottanta, Dead Men Don’t Wear Plaid di Carl Reiner con Steve Martin: un richiamo singolare, utilizzato con ironia da Forsythe, che “dribbla” il riferimento narrativo trascinandoci in un meccanismo perfetto di danza, ritmo e disegno. La creazione si articola in due parti: il quintetto iniziale sembra simulare l’ingranaggio di un orologio, attraverso entrate ed uscite, unisono e contrappunto, cronometrati al centesimo di secondo. Tre donne e due uomini, elegantemente in nero, si alternano in scena scambiandosi impercettibili segnali di intesa tra rapidi cambi di posizione e direzione: misurando le reciproche distanze, danzano senza tregua, tra ampie sissonne, giri vorticosi, aplomb in attitude e disequilibri in développé, un attimo prima di ritrovare il centro in appuntiti échappé.

Brano di strepitoso impatto, il pas de cinq mette a dura prova le abilità tecniche degli interpreti che in questo caso si districano con puntualità tra le complesse geometrie del balletto, pur compensando talvolta le vertiginose dinamiche forsythiane con un’esecuzione più prudente. Il balletto è certamente nelle potenzialità dell’ensemble romano, che non manca di solidità tecnica e versatilità stilistica: un maggior “rodaggio”, dopo questa prima rappresentazione assoluta – che di per sé già impreziosisce il repertorio della compagnia – non potrà che perfezionarne la complessiva riuscita. Si fanno comunque notare, nei passaggi centrali, Marta Marigliani, scattante danzatrice dal passo deciso, e Giacomo Castellana, che, ben aderente allo stile Forsythe, risolve le ardue sequenze con caratteristica flessuosità. Annalisa Cianci e Marianna Suriano diligentemente alternano linee sinuose e affilate; Alessio Rezza, primo ballerino, piega con ingegno le asperità stilistiche con un’essenzialità tecnica sopraffina (risultato anche di una non comune sensibilità ritmica).

Convince e affascina, nell’intrigante pas de deux della seconda parte, la coppia Susanna Salvi e Michele Satriano, étoile e primo ballerino del teatro, già avvezzi allo stile di William Forsythe (Satriano vanta anche un’esperienza accanto alla stella Sylvie Guillem, quando giovanissimo, ai tempi del Maggiodanza, fu scelto come suo partner in Steptext). In un pezzo che alterna intensità e ironia, rigidità e morbidezza, l’uomo e la donna si sfidano, scambiandosi puntualmente i ruoli e polverizzando ogni stereotipo. In body nero semitrasparente, Susanna Salvi accorda il suo corpo alle vibrazioni sonore di Willems sfoderando una personalità d’acciaio. Michele Satriano, palpitante eppur quieto, ne segue attentamente il cammino, catturandone gli slanci da insoliti appigli (un polso, la nuca, un fianco) e lasciandosi sostenere, a sua volta, dalla risoluta partner.

Difficile, dal punto di vista tecnico-stilistico, il passo a due culmina nelle repentine sequenze in gonnellino giallo brillante, in cui i due interpreti sfogano il proprio impeto solitario per poi tornare ad intrecciare, all’infinito, anima e corpo (bellissimo il finale con le luci che si abbassano durante l’ultima, potenzialmente interminabile, pirouette). Ben si incastrano tra loro, la solida danza di Susanna Salvi e il gesto gentile di Michele Satriano, nello stesso tempo energici e fluidi.

Cuore della serata è Walking Mad di Johan Inger, creazione del 2001, già rappresentata all’Opera di Roma nel 2018. Il brano inizia (a sorpresa) con un uomo solitario che si aggira in platea: finirà catapultato in scena e poi rispedito in proscenio da un imponente muro grigio, inquietante immagine di un confine invalicabile e richiamo irresistibile verso un mondo altro. Le note celebri del Bolero di Maurice Ravel scandiscono gli attimi di una ricerca ossessiva, che sonoramente sbatte contro i limiti della conoscenza e lotta con le ombre del mondo. Alcuni personaggi bizzarri (sei uomini e tre donne) si alternano tra il lato visibile e quello nascosto del grande muro, in un circolo infinito di prigionia e liberazione, tra improvvisi spiragli di fuga e porte di verità inattese. Sarà l’amore, forse, a raccontarci le cadute di queste anime inquiete, che d’un tratto vedremo volare oltre i muri del tempo.

Ironico e nello stesso tempo nostalgico, il racconto di Inger si interrompe al culmine del Bolero lasciando ad una donna, inizialmente prigioniera nell’angolo della propria solitudine, il compito di narrare un nuovo destino. Il linguaggio del coreografo svedese – che accosta potenza e leggerezza, silenzio e frastuono – si adatta appieno ai danzatori dell’Opera di Roma, che qui danno un’eccellente prova di versatilità e intensità interpretativa. Tra loro, di nuovo, il primo ballerino Alessio Rezza, di cui amiamo la capacità di frammentare e sospendere il gesto valorizzando ogni dettaglio coreografico; Marta Marigliani e Giorgia Calenda, interpreti appassionate e forti; e gli uomini, Michele Satriano, Giacomo Castellana, Simone Agrò e Giovanni Castelli, dal movimento ampio e delicato insieme. Da segnalare, l’interpretazione di Annalisa Cianci Jacopo Giarda (che è anche perfetto protagonista nelle scene iniziali), intensi nel pas de deux finale sulle note di Für Alina di Arvo Pärt: malinconico epilogo (in netto contrasto con le fiamme del Bolero) che tra i respiri di un’inattesa solitudine chiuderà, in silenzio, il sipario del mondo.

A chiudere la serata, la nuova coreografia dal titolo From Afar: a firmarla è Nicolas Blanc, per la prima volta ospite del teatro su invito della direttrice Eleonora Abbagnato. Già allievo di Marika Besobrasova a Monte-Carlo e, dopo il Prix de Lausanne, dell’École de l’Opéra de Paris, Nicolas Blanc è stato un danzatore di grande talento, non a caso interprete di prestigiose compagnie, prima in Europa (Opéra Nice, Deutsche Opera am Rhein, Ballet Zürich) e poi negli Stati Uniti, dove è stato principal dancer al San Francisco Ballet e dove oggi risiede – a Chicago – come rehearsal director e coach al Jeoffrey Ballet. L’attività di coreografo, iniziata nel 2006, ne ha messo in luce un vivace estro creativo, già premiato con diversi riconoscimenti: il suo più recente lavoro per il Jeoffrey Ballet, Under the Trees Voices – ispirato, come From Afar, alle note di Ezio Bosso, indimenticato direttore d’orchestra e compositore torinese – ha debuttato pochi mesi fa, nell’autunno 2021, alla Chicago Lyric Opera.

Come il titolo suggerisce, From Afar ci parla di separazioni e distanze, di paure e speranze, nell’unico immenso viaggio dell’umanità. La scenografia di Andrea Miglio (con le luci di Fabrizio Marinelli) ci immerge sin dal principio in un oceano verde-azzurro, la cui maestosità risuona nelle note della Symphony No.1 “Oceans” di Ezio Bosso. Una barca di legno incombe dall’alto e sembra affondare verso il palcoscenico, dove una comunità di donne e di uomini si disperde e si ricompatta, resistendo e abbandonandosi agli eventi, per poi ripartire verso nuove terre e orizzonti. Distingueremo tra loro, un uomo (il primo ballerino Claudio Cocino), eroe di un mondo in caduta, e una donna (Susanna Salvi), madre di una nuova possibile era. La drammaturgia, sotto una più immediata lettura, nasconde forse un filosofico risvolto, che accenna appena ad un ideale nuovo contratto sociale come esito del nostro viaggio e unico principio di giustizia universale. Tra reminiscenze di George Balanchine (di cui Blanc, del resto, ha danzato buona parte del repertorio) e di Paul Taylor, l’autore costruisce con ventisei danzatori un massiccio impianto coreografico, che se funziona dal punto di vista del disegno scenico d’insieme – con intelligenti quadri in movimento – sembra infine rinunciare ad una vera originalità stilistica, adagiandosi su un (pur denso, già conosciuto) vocabolario neoclassico. Più interesse destano i passi a due, che rivelano nel linguaggio coreografico una ricerca più personale: Susanna Salvi, dal volto d’attrice, regala un’appassionata interpretazione, mentre Claudio Cocino sfoggia un movimento arioso e insieme potente. Tutti gli interpreti sembrano a loro agio nella coreografia (segno di un positivo scambio con Nicolas Blanc): potenziandone il lato espressivo, restituiscono infine attimi di coinvolgente lirismo. Non ci sfuggono, nel corposo gruppo, le soliste Federica Maine, Roberta Paparella e Flavia Morgante.

Il pubblico della Prima, trascinato dal connubio di passi e di note, sembra gradire e gli applausi per i protagonisti, al termine di tutte e tre le coreografie, sono calorosi e prolungati.

Lula Abicca e Francesca Bernbini

03/02/2022

 

Foto: 1.-5. Susanna Salvi e Michele Satriano, Herman Schmerman di William Forsythe, ph. Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma; 6.-14. Herman Schmerman di William Forsythe, ph. Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma; 15.-33. Walking Mad di Johan Inger, ph. Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma; 34.-64. From Afar di Nicolas Blanc, ph. Fabrizio Sansoni, Teatro dell’Opera di Roma.

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