La recensione

Dancing days al #REf17: uno sguardo sulla nuova danza italiana ed europea

Sono andati in scena al MACRO Testaccio - La Pelanda i Dancing days del Romaeuropa Festival 2017: il programma mostra gli esiti della ricerca coreografica contemporanea attraverso gli spettacoli di otto compagnie rappresentative della scena europea. Nell’articolo, il racconto delle nuove creazioni di Francesca Foscarini, Orlando Izzo e Angelo Petracca, Arno Schuitemaker, Timothy and the Things e Jonas&Lander.

Dancing days al Romaeuropa 2017: giornate di danza che parlano al presente, fissando nel gesto gli attimi di una contemporaneità in corsa. Con un programma a cura di Francesca Manica (articolato in tre serate, dal 2 al 4 novembre, per un totale di otto spettacoli negli spazi del MACRO Testaccio – La Pelanda), i Dancing days raccolgono l’eredità di quella Danza Nazionale Autoriale (DNA) che negli anni passati aveva gettato il seme di nuove generazioni creative, conservandone lo spirito di indagine sull’emergente genio autoriale e sulla recente scena europea. A supporto della programmazione, il consolidato rapporto con il network europeo Aerowaves, anche quest’anno protagonista dei Dancing days con cinque artisti già selezionati dalla rete di John Ashford: Timothy and the Things (Ungheria), Daniele Ninarello, Francesca Foscarini (Italia), Jesús Rubio Gamo (Spagna), Jonas&Lander (Portogallo). Con loro, a completare il fitto programma dei Dancing days: Orlando Izzo e Angelo Petracca, Arno Schuitemaker e Floor Robert.

Quel che emerge è indubbiamente il desiderio di ribaltare le prospettive, coinvolgendo il pubblico in nuove visioni attraverso l’ironia dirompente, abbracci sonori e analisi critiche dello sguardo. Strumenti differenti per un obiettivo comune, quello di guardarsi e riconoscersi, artisti e spettatori, come protagonisti di una scena aperta e in trasformazione. Emblematico, in questo senso, il lavoro Vocazione all’asimmetria di Francesca Foscarini, già danzatrice per Aldes di Roberto Castello, poi Premio Equilibrio 2013 e interprete di Gut Gift di Yasmeen Godder, oggi performer e coreografa riconosciuta in diversi contesti nazionali (GD’A Veneto, Rete Anticorpi XL, Kilowatt Festival), nonché artista selezionata da Aerowaves Twenty17.

In Vocazione all’asimmetria di Francesca Foscarini la riflessione sull’incontro con l’altro, declinata secondo il sistema filosofico di Emmanuel Lévinas, si traduce nella rappresentazione di un paradosso: quello di un volto che esige accoglienza sottraendosi al possesso, un volto che domanda il riconoscimento e rifiuta l’identità. L’irriducibilità del confronto è nell’obbligo dello sguardo, un’imposizione gentile (ma ineludibile) che pone lo spettatore di fronte a se stesso e al mondo, consacrato al servizio di un’alterità totale. Tema complesso, si scioglie con delicatezza tra i frammenti d’esistenza di due individualità allo specchio: la stessa Francesca Foscarini e Andrea Costanzo Martini (straordinario performer, recentemente selezionato per Aerowaves Twenty18) ci conducono per mano in un luogo intimo e silenzioso, in cui l’Altro si manifesta con cautela e si consegna al buio; la luce sarà quella abbagliante dell’incontro, principio di una relazione in equilibrio tra legame e separazione, uniformità e differenza. Un lavoro costruito con intelligenza e misura, corretto nei tempi e nelle soluzioni dinamiche ed esaltato dalla bravura dei due protagonisti, abilissimi nell’alternare fragilità e potenza, ordine e caos, inquietudine e controllo.

Con Trattato semiserio di oculistica, Orlando Izzo e Angelo Petracca (artisti associati di Interno5) giocano con lo sguardo del pubblico, modificando con leggerezza punti di vista e percezione. Osservatori “osservati” da enormi bulbi oculari proiettati sul fondale, ci scopriamo partecipi di un meccanismo rovesciato in cui la realtà sfugge ad ogni certezza visiva e si lascia manipolare dalla contingenza dello sguardo. Interpreti scattanti, Izzo e Petracca saltellano sardonici tra la scienza e l’immaginazione, tra il possibile e l’inverosimile, sfiorando sapientemente i confini del surreale. Bizzarre partite a tennis alternate ad accurate spiegazioni scientifiche divertono e incuriosiscono, generando presto un dubbio: se quel che vedo sta accadendo davvero, cosa accadrebbe se non vedessi bene o se non vedessi affatto? Riflessione acuta, in cui gli autori hanno trovato l’accattivante spunto per lo studio vincitore dell’ultimo DNAppunti coreografici, e che oggi vediamo in scena in versione integrale; originale, essenziale e fresco, il lavoro merita attenzione soprattutto per il talento creativo di due giovani autori in crescita.

Arno Schuitemaker, artista olandese ospite dei maggiori festival europei e supportato da importanti realtà internazionali (tra gli altri, ICK Amsterdam, CN D Centre national de la danse – Pantin, HELLERAU – Europäisches Zentrum der Künste – Dresden, Dansehallerne – Copenhagen, Tanzquartier Wien) porta in scena la rappresentazione ossessiva di un’attesa, tra le luci e le ombre di un’intimità lacerata. I will wait for you ribalta l’inerzia di una relazione sospesa in un moto reiterato e insistente, un’onda muscolare che agisce e muove, ingannando la ferocia del tempo e l’immutabilità dello spazio. Anima in tre corpi (gli interpreti Revé Terborg, Jenia Kasatkina, Stein Fluijt), la creatura di Schuitemaker nasce nel buio tra i ticchettii discreti di un battito già vivo; il profilo mobile e curvilineo crescerà potente e truce tra i ritmi concitati di un presente inclemente. Non tutti attendono; qualcuno, nel pubblico, rinuncia e abbandona il campo; altri inclinano la testa, ipnotizzati dagli impercettibili (eppure presenti) cambi d’onda. Chi resiste, si scopre avvinto dal fascino ambiguo di corpi ostinati, disarmati da una battaglia estenuante e senza vincitori. Una performance in sé compiuta, che si accorda all’inclinazione di chi osserva, agganciandone i sentimenti: dall’abitudine all’ansia, dall’assuefazione all’angoscia.

Timothy and the Things è il singolare nome del duo ungherese composto da Emese Cuhorka e László Fülöp. Alter ego del giovane autore (musicista e poi danzatore presso la Budapest Contemporary Dance Academy), Timothy è il protagonista di un universo creativo ironico e intrigante; con la nuova abitante, la danzatrice Cuhorka, il personaggio si trasforma nel leader di un immaginario comune e nel nome stesso della compagnia. Your Mother at my Door smonta le regole della rappresentazione portandone in scena la progressiva costruzione, fatta di ispirazione e tentativi, pause di riflessione e impennate creative, sentimentalismo estremo e cinismo dissacrante. La Sinfonia dal Nuovo Mondo di Antonín Dvořák si trasforma nel codice linguistico di un nuovo dialogo in cui gli interlocutori (apparentemente solo due, ma probabilmente molti di più, considerando l’autore assente delle impetuose note e tutti i personaggi reali e immaginari che affollano una mente creativa) parlano di sé e a se stessi, costantemente in bilico tra l’illuminazione e il dubbio. Cuhorka e Fülöp divertono restando seri e sorridono con lucidità, coinvolgendo lo spettatore in un atto di creazione leggero e insolito. Particolarmente carismatica la danzatrice Emese, dotata di spontanea e brillante ironia.

Irresistibilmente folle, in chiusura dei Dancing days, Adorabilis dei portoghesi Jonas&Lander: tre uomini in gabbia, forse creature post apocalittiche o semplicemente schiave di un sistema fuori controllo, coniano nuovi moduli di comunicazione sfidando il pubblico a decodificarne l’estetica e i valori. Esplosioni di vetri e spumante impongono al pubblico un’allerta costante, che sfocia prima in espressioni pensierose, poi in timide risate, infine in sonora e stupita allegria. Gli interpreti Jonas Lopes e Lander Patrick, accompagnati dal danzatore Lewis Seivwright, abitano un mondo virtuale impazzito in cui la “rete” diventa il simbolo di una comune prigionia (il palcoscenico è, non a caso, una griglia luminosa). Imbrigliati e insofferenti, nuotano tra le consuetudini di un’umanità disfatta e schizofrenica, che affonda progressivamente nelle proprie paure. Un occhio sul fondale disturba, orienta, impone e punisce, mentre si consuma l’ennesimo rituale per una natura spietata; inesorabilmente vincerà il più forte e il ciclo riprenderà, di nuovo, ancora più folle, ancora più crudele. Applaudito dal pubblico del MACRO, Adorabilis fa ridere e anche riflettere: uno spettacolo turbolento e bizzarro, a tratti alienante e infine inaspettatamente commovente.

Lula Abicca 

13/11/2017

Foto: 1.-3. Vocazione all’asimmetria, Francesca Foscarini e Andrea Costanzo Martini, ph. Ilaria Costanzo; 4. Trattato semiserio di oculistica di Orlando Izzo e Angelo Petracca, ph. Piero Tauro; 5.-7. I will wait for you di Arno Schuitemaker, ph. Sigel Eschkol; 8.-10. Timothy and the Things, Your Mother at my Door di Emese Cuhorka e László Fülöp; 11.-12. Jonas&Lander, Adorabilis.

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4 Commenti

  1. AngelaSterlacci

    TIMOTHY AND THE THINGS – YOUR MOTHER AT MY DOOR
    La mia serata del 2 novembre ’17 è stata assolutamente rallegrata da questo duo, a dir poco stravolgente. Emese Cuhorka e Laszlo Fulop, interpreti e creatori di Your mother at my door, hanno conferito al REf17 un’ondata di indiscutibile freschezza e innovazione. Solitamente la danza, come arte, viene utilizzata e sfruttata come mezzo di trasmissione di tematiche e problematiche sociali di rilievo, e pertanto in teatro si crea un atmosfera di colossale serietà e rigore, talvolta un po’ ansiogena per i partecipanti. In questo caso nulla di tutto ciò è accaduto: autoironicamente i due danzatori, accompagnati dal loro stesso piacere nello stare sul palco a “giocherellare” con una pianola, si sono proposti come emblema della spensieratezza, rompendo completamente la distanza che di solito sussiste tra audience e interpreti. Fondamentale per la buona riuscita della composizione è stato il feeling artistico tra i due interpreti. La loro amicizia ed apprezzabile intesa artistica nasce all’interno della Budapest Contemporary Dance Academy, in cui i due artisti si sono formati e plasmati come danzatori.
    Your mother at my door si sviluppa su di una trama coreografica creata sulla base dell’improvvisazione e sullo scambio reciproco di sensazioni e idee tra queste due geniali menti. Tutte le varie tappe della creazione sono chiare e leggibili: si parte da un tema base, che in tal caso è rappresentato dalla relazione tra arte coreografica e melodia, sviluppato inizialmente in maniera fortemente personale, per poi interconnettersi con l’altro e ottenere un sorprendente prodotto finale. Tutto ciò è accompagnato dalla voglia di prendersi gioco di se stessi e degli altri, sviluppando un’atmosfera grottesca che conduce inevitabilmente alla risata. Per tale scopo il linguaggio coreutico non è il solo protagonista della scena, ma viene affiancato dall’uso della parola.
    Come già detto, uno dei temi base della performance è stato la relazione tra danza e suono. Nei soli o nei duetti si poteva apprezzare come ogni singolo movimento nascesse da una sola nota, impersonificandola pedissequamente. Osservando i danzatori all’opera ho immaginato che in nessun altro modo, se non in quello scelto, quella singola nota, quella sola battuta, quella intera partitura musicale potesse essere tradotta in movimento.
    Come affermato da Fulop l’obiettivo coreografico era quello di trovare un modo per parafrasare fisicamente la Sinfonia del Nuovo Mondo di Antonin Dvorak, senza però rimanere succubi della sua potenza. A tale scopo, durante la creazione, gli autori hanno cercato di porsi sullo stesso piano del musicista: entrambi compositori ma con metodi espressivi diversi. Il musicista esegue o pensa, spesso da seduto, ai movimenti che riguardano la produzione del suono, ma non é costretto a muoversi in una precisa maniera o con un particolare ritmo, e ovviamente se posto sullo stesso piano di un danzatore, non sarebbe in grado di ottenere il medesimo risultato. É invece in grado di percepire il movimento nella musica, spinto a danzare o a seguire la stessa con il piede o con il capo. Ed é proprio in tale sensazione allusivo che il danzatore ritrova il suo punto di partenza, sviluppandola in movimenti con una struttura spaziale e temporale del tutto propria ed estremamente legata al suono. Concludendo, il connubio fra musica e arte coreografica, fra astratto e concreto, fra surreale e materiale mi ha lasciato senza parole, riuscendo a catturare me stessa, immedesimata nel contesto. Un’esperienza poetica che non dimenticherò mai
    Angela Sterlacci
    Danzaeffebi meets #REf17

    Nov 14, 2017 @ 09:34:20

  2. dimuziotiziano

    ROMAEUROPA FESTIVAL 2017

    Vocazione all’asimmetria – Francesca Foscarini
    Adorabilis – Jonas&Lander

    MACRO Testaccio – La Pelanda, Roma

    4 novembre 2017

    Entrambi selezionati dal network Aerowaves per Twenty17, Vocazione all’asimmetria di Francesca Foscarini e Adorabilis, firmato dalla coppia portoghese Jonas&Lander, chiudono la rassegna Dancing days dedicata al movimento e all’indagine delle tendenze coreografiche di matrice europea. Al MACRO Testaccio due lavori completamente diversi che stimolano riflessioni interiori, pensieri contraddittori e, come spesso accade, dividono un pubblico numeroso e partecipe.

    Dark, chiudere gli occhi. Light, aprirli. Con questa indicazione il performer Andrea Costanzo Martini e la coreografa/interprete Francesca Foscarini accolgono gli spettatori: subito s’intuisce che il ruolo e la partecipazione del pubblico al lavoro saranno importanti e attivi. Disposta su due file – organizzate una davanti all’altra e traccianti i lati lunghi di uno spazio completamente bianco – la platea accetta la relazione diretta suggerita dalla performance: «la danza» afferma Foscarini «perde la dimensione frontale per una più partecipativa».

    La potenza dello sguardo. Tutto è focalizzato sugli occhi e sul viso che, di volta in volta costretto a un appuntamento inatteso, crea, privo di maschere, situazioni nuove, non pianificate o programmabili: circostanze umane. La casualità degli incontri e le relazioni che ne scaturiscono sono esplorate attraverso la danza, l’improvvisazione e il voler creare ex novo, basandosi sul contatto con un pubblico sempre diverso. Esattamente come accade ogni giorno nella vita di ognuno di noi.

    Tuttavia, in Vocazione all’asimmetria – ispirato al pensiero di Emmanuel Lèvinas – l’abilità della coreografa e del suo partner sta proprio nel non lasciare niente al caso. Nel gioco a due che magistralmente alterna soli e momenti d’insieme, movimenti specifici, un vocabolario ricchissimo e particolareggiato, espressività compositiva, i gesti reiterati e resi pieni attraverso dinamica e immagini simboliche sempre intense, sono costruiti a regola d’arte, curati, precisi e interiorizzati da due fisicità che sembrano molto diverse ma che, a tratti, si rivelano una come lo specchio dell’altra.

    Due interpreti eccezionali che s’incontrano per poi respingersi, che si cercano ma contemporaneamente lottano per imporre le loro singole identità e il loro esserci come individui autonomi. Prima e dopo l’incontro. Una metamorfosi continua nel tempo presente, fatto di suoni e voci registrati simultaneamente allo svilupparsi dell’azione. Dark, il buio. Lo spazio dell’immaginazione e della trasformazione in cui lo spettatore è completamente coinvolto. Light, la luce. Il momento in cui tutto si materializza e ci rivela la realtà delle cose. Sono come le avevamo immaginate o, in un battere di ciglia, tutto è mutato?

    Spostandosi di poco ed entrando in una nuova area – caratterizzata dagli elementi distintivi di un teatro con platea frontale – la nitidezza della luce bianca, che solo in precisi momenti del precedente spettacolo si era alternata con il buio e con una tonalità violacea, lascia spazio a uno scenario psichedelico, labirintico, in cui il pavimento – precisamente suddiviso in riquadri – si trasforma in una rete, una gabbia che condiziona in maniera evidente i movimenti coreografici e i percorsi, tipici di un Tetris, dei protagonisti di Adorabilis.

    «La luce imprigiona i performer» affermano Jonas&Lander «in isole luminose in mezzo al buio e ci indica le tracce da seguire, i limiti entro cui gestire i movimenti e la via verso i successivi percorsi»: sembra di essere stati spettatori di un videogame emozionale e freddo allo stesso tempo.

    Tre interpreti, stranamente abbigliati, danno prova di versatilità e trasformismo attraverso un corpo atletico e definito. A tratti folli e apparentemente incoerenti, si rendono protagonisti di una pièce che, ricordando le opere di Hieronymus Bosch, non può fare a meno di indurre il pubblico a porsi delle domande esistenziali cruciali.

    Un occhio virtuale domina la scena e nell’alternarsi di suono, musica, recitazione e canto un acquario viene frantumano in mille pezzi con una bottiglia di champagne che, all’occorrenza, è stata aperta: il contenuto sarà in seguito rovesciato su una platea incredula e, spesso, divertita.

    La morte dei pesci rossi – che avevano la propria dimora nell’acquario rotto – è celebrata solo a fine spettacolo durante una commovente prova di abilità canora da parte di uno dei protagonisti. Tutti siamo prigionieri di una rete, la stessa che copre il viso dei tre artisti/animali. Tutti siamo dei piccoli pesci. Un finto squalo, volando sulle teste del pubblico, dalla regia fino ad arrivare sullo spazio performativo, ci ricorda che, troppo spesso, nessuno sfugge dall’essere “divorati” da un pesce più grande di noi.

    C’è chi, volontariamente, sbatte i tacchi nel lasciare anticipatamente la sala per rimarcare il proprio disappunto di fronte a un’opera contraddittoria e, a tratti, dissacrante. Ciò nonostante, uno scroscio di lunghi applausi rende merito a questo «polipo dal carattere dolce e acido allo stesso tempo, con un’enorme capacità di camuffamento, in grado di assumere forme e colori radicalmente diversi».

    Tiziano Di Muzio
    Danzaeffebi meets Romaeuropa

    Nov 14, 2017 @ 22:01:20

  3. ericabravini

    Dancing Days al Romaeuropa Festival

    Trattato semiserio di oculistica, di Orlando Izzo e Angelo Petracca, reduce dalla selezione di DNAppunti Coreografici, approda in versione estesa al Romaeuropa Festival, aprendo le danze ai tre giorni al Macro di Testaccio – La Pelanda della rassegna Dancing Days. L’occhio dei due performer si focalizza sulla visione e sulla percezione dello spettacolo di danza in sé, offrendo piccoli ma interessanti momenti di riflessione. Il pubblico guarda la scena ma è allo stesso tempo guardato, scrutato, giudicato da due enormi occhi proiettati sul fondale, mentre occhi più piccoli, le palline da tennis, sia vere che immaginarie, vengono impiegate in un’intensa e dinamica partita tra i due. Un “occhio” continuamente mutevole ma portatore di una sconosciuta verità è poi la lampadina colorata, posta al centro della scena, che illumina i due, che cercano identificazione in essa, scoprono parti di sé attraverso la sua flebile luce; gli interpreti sembrano ormai non conoscere altro che questa visione, accecati dal buio che li circonda.

    Your Mother at my Door risulta un vincente prodotto del duo ungherese, Timothy and the Things. Ci diverte ma ci fa allo stesso tempo riflettere, riguardo i rapporti danza- musica, ad esempio; esiste movimento di danza quando le note di un brano cessano di essere udibili? C’è danza oltre la musica, oltre il pedissequo e ossessivo rimarcare col corpo le armonie musicali? Ironicamente, il performer Laszlo Fulop, crea una coreografia, in un primo momento, di straniante mimesi musicale, per cui quando la Sinfonia di Dvorak si interrompe anche lui non può far altro che bloccarsi, aspettando che la sua collega Emese Cuhorka faccia ripartire la musica. Si creano momenti comici ed esilaranti, in cui la statua immobile di Lazlo inveisce contro Emese la quale è smarrita nel suo mondo immaginario e sorda di fronte ai ripetuti ordini. La situazione esplode poi in un frenetico susseguirsi di immagini corporee, citazioni e riferimenti, più o meno evidenti; si prendono gioco della danza stessa, dello spettacolo in sé e del loro stesso agire sulla scena. Timothy non è un semplice nome d’arte ma qualcosa di più: è il loro guru, capostipite, eroe, guida spirituale, nato nel 4367 a.C. Il risultato è una coppia iconica, feroce e dissacrante, che non ha paura di affermare il proprio credo, che non ha paura di alzare la voce e di offendere qualcuno o qualcosa.

    I will wait for you, dell’olandese Arno Schuitemaker, rappresenta uno studio attento e sofisticato sul movimento e sul suo processo di trasformazione; per 60 minuti i tre danzatori calibrano le loro forze corporee al fine di trasformare in continuazione, e molto lentamente, qualsiasi movimento in un altro, ma senza che questo “cambiamento” sia mai veramente visibile ai nostri occhi. Un processo molto lento e duraturo che ci dà l’idea di un divenire in continuo mutamento, una trasformazione evidente ma sempre inafferrabile. Quello che accade in scena sembra non essere semplicemente circoscrivibile ai 60 minuti della pièce, ma sembra che i tre performer abbiano sempre vissuto in quel modo, abbiano sempre oscillato e roteato così, mentre a noi risultano visibili solo per i 60 minuti in cui la luce li illumina e ci mostra questa verità fin’ora nascosta. Si muovevano prima che noi entrassimo in sala e si muoveranno ancora al termine dello spettacolo; non c’è inizio, non c’è fine ma solo un mentre che non possiamo giustificare.

    Erica Bravini
    Danzaeffebi meets #REf17

    Nov 16, 2017 @ 21:26:39

  4. AngelaSterlacci

    ARNO SCHUITEMAKER, I WILL WAIT FOR YOU
    Giovedì 2 novembre ho avuto la possibilità di interfacciarmi dapprima come studentessa, successivamente come entusiasta spettatrice con il coreografo Arno Schuitemaker.
    Nato nel 1976 ad Amsterdam, l’autore ha espresso al meglio le sue idee con la rappresentazione dell’opera I will wait for you, uno spettacolo percettivo, viscerale e a tratti ipnotizzante, basato sull’utilizzo delle luci e di altri strumenti quali ritmo, ripetizioni e resistenza.
    A dire il vero, se non avessi partecipato attivamente alla sua masterclass, tenutasi presso l’Accademia Nazionale di danza, non avrei avuto la possibilità di apprezzare a pieno la sua composizione. Probabilmente avrei superficialmente declassato la sua opera come un insostenibile e sconclusionato loop. Ma tramite il meticoloso studio esplicato durante la masterclass in realtà ho potuto meglio assimilare le sue idee, rappresentate al meglio con una scelta coreografica molto audace, in quanto la sua opera assume più le sembianze di un “work in progress” che di una performance completa.
    La masterclass è stata incentrata totalmente sulla ricerca di quell’unico elemento base espresso poi ottimamente nella scena serale: la percezione di un movimento interno relativo solo al petto, esplicabile attraverso più atti complessi, quali oscillazioni, torsioni o più ermeticamente ancora, avvalendosi esclusivamente del respiro affannoso.
    Come nella coreografia poi in scena, la lezione è iniziata attraverso l’esplicazione di piccoli e scarni movimenti del torace, al fine di concentrarsi al massimo sulla percezione individuale. Man mano che si riusciva ad ottenere maggiore consapevolezza del proprio corpo ci si interfacciava progressivamente con un altro interprete (in un duo o in un trio come nella coreografia originaria): ad occhi chiusi ci si affidava al tocco del proprio partner, avvalendosi esclusivamente dell’impressione dell’altro, cercando di raggiungere una dimensione altra dal punto di vista sensoriale. Successivamente, in questo iter di trasformazione e introspezione, per raggiungere un maggiore livello di intesa si è passati a diversi spunti di percezione visiva: con una semplice camminata ci si immedesimava nel concetto di distanza, più lunga o breve che fosse, conservando però la stessa tensione visiva con l’altro. Questo progressivo allontanarsi ma permanere allo stesso tempo completamente rivolti verso una persona fisicamente e mentalmente è una delle sfumature più suggestive che il coreografo ha deciso di conferire al concetto dell’“attesa”.
    Angela Sterlacci
    Danzaeffebi meets #REf17

    Nov 18, 2017 @ 15:08:03

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