Chotto Desh di Akram Khan Company e Dark Circus di Stereoptik. Applausi e risate di bambini per il REfkids del Romaeuropa festival
REf17 si arricchisce quest’anno di una sezione del tutto dedicata ai bambini, perché è giusto che anche i piccoli spettatori possano godere di spettacoli di elevata qualità. Tra gli spettacoli proposti per REfkids, Chotto Desh dell’Akram Khan Company, straordinario assolo tratto dall’originale Desh del 2011 e riadattato per bambini. E Dark Circus dei francesi Stereoptik tra danza, teatro di animazione e musica live.
Una delle importanti novità di Romaeuropa 2017 è REfkids, la sezione del festival curata da Stefania Lo Giudice completamente dedicata agli spettatori più giovani. Tre weekend (tra l’11-26 novembre 2017) con una ricca programmazione di spettacoli. Ma non solo: REfkids comprende anche spazi adibiti a installazioni interattive, laboratori creativi e incontri che indagano temi brucianti quali dipendenza da videogame e cyberbullismo. Un’occasione anche per scoprire cosa in ambito internazionale smuove la creatività degli artisti nel campo degli spettacoli per i più piccoli: oltre all’Italia i contributori di questo spazio del festival sono Inghilterra, Olanda, Spagna e Francia.
L’apertura di Romaeuropa festival al mondo dei giovanissimi risponde appieno alla recente richiesta di un teatro di elevata qualità anche per il pubblico dei piccoli uomini e delle piccole donne. Un filone questo che, negli ultimi tempi, si sta sviluppando soprattutto attraverso le proposte artistiche più innovative, complice la contaminazione con il digitale e con le nuove tecnologie.
L’apertura di REfkids – con il botto! – è stata affidata lo scorso 10 novembre 2017 alla Akram Khan Company che per tre giorni consecutivi ha portato in scena Chotto Desh, straordinario assolo tratto dall’originale Desh del 2011, ora riadattato per bambini. È il racconto di un desiderio diventato realtà, il sogno di un artista che ha dovuto superare scogli culturali e resistenze genitoriali per donare la propria vita alla danza. La storia, che ha il pregio di essere fortemente autobiografica, porta a testimoniare in carne ed ossa i conflitti generazionali razziali e multiculturali vissuti dal giovane Akram Khan nella fase più delicata della sua vita: quella dell’infanzia in cui vengono gettate le basi per le scelte che possono pesare un’esistenza intera.
L’idea di trasformare Desh (il cui titolo in bengali significa Patria) in Chotto Desh (Piccola Patria) arriva dalla sua visionaria regista Sue Buckmaster. La stessa è anche direttore artistico di Theatre-Rites , compagnia londinese specializzata nella creazione di teatro sperimentale per ragazzi che fa specialmente uso di animazioni luminose e manipolazione di oggetti inanimati. Sue Buckmaster conosce Akram Khan durante la sua collaborazione con la Sadler’s Wells e insieme decidono di intraprendere questa nuova sfida: trasformare un’opera, già intensissima e piena di riferimenti storici e vissuti personali, in un lavoro per tutta la famiglia. Dove la potenza degli argomenti in atto si mescola alla leggerezza delle modalità drammaturgiche. Risultato è uno spettacolo che ne mantiene intatta la dolcezza espressiva – grazie anche alle doti dei bravissimi interpreti Dennis Alamanos e Nicolas Ricchini, in alternanza – senza snaturare quella tensione emotiva che ci raschia dentro la pancia ogni qualvolta assistiamo ai lavori del nostro Akram Khan, così amato anche in Italia (complici le sue numerose visite nel nostro paese). Pretesto per l’avvio dello spettacolo è una telefonata a un’operatrice call center per segnalare il blocco del proprio smartphone: il recupero di password nascoste nella memoria assicura un salto nel passato alla ricerca dell’identità attuale.
Chotto Desh è l’alternanza sul palco di tanti micro-cosmi: quello dell’infanzia e dei sogni, quello della fantasia e del gioco, quello dell’ambivalenza dato dall’amore parentale unitamente al forte desiderio di differenziazione. E ancora quello delle radici che sconfinano all’interno della personale coscienza politica con un richiamo al senso della Patria, all’appartenenza primitiva. Obiettivo è far coesistere tutti questi mondi insieme, senza sacrificarne nessuno.
La narrazione procede lieve grazie al sapiente mix delle bellissime animazioni video create da Tim Yipp con voci fuoricampo che fanno rivivere le personalità del papà e della nonna del piccolo Akram Khan. E i momenti di pura danza, in cui è evidentissima l’impronta Kathak, fanno da collante alle divertenti e delicate trovate registiche che ci portano a ridere e sorridere (come la maxi sedia in scena dove il bambino Akram è “costretto” da ordini severi ad accomodarsi, oppure il cranio rasato del danzatore con il volto disegnato della figura paterna). Interagendo con animazioni oniriche che rappresentano elefanti, fiori, coccodrilli, api a cui viene rubato il miele, il piccolo Akram si fa strada in una foresta dagli alberi rovesciati imparando il giusto valore delle cose. Perché sono le radici, la vera testa, a guidarci, quello che ci portiamo dietro nel presente e nel futuro. Al termine degli sbalzi condotti tra gli episodi del proprio passato, il nostro bambino ormai cresciuto finalmente ritrova se’ stesso. E rinviene quello che cercava, riappropriandosi di quello che era stato; adesso può finalmente indicare dove si trova e cosa è diventato. E per noi adulti è davvero impagabile rivivere tutto ciò in un teatro in cui risuonano le risate trasparenti dei bambini che ci siedono accanto.
Ma Romaeuropa festival osa mescolare diversi stili e linguaggi anche nell’offerta ai più piccoli, senza timore di aggregare danza a teatro di animazione e musica live. Come il Dark Circus portato in scena l’11-12 novembre 2017 dai francesi Romain Bermond e Jean-Baptiste Maillet, musicisti e allo stesso tempo visual artist già presenti lo scorso anno al festival. Sono gli Stereoptik, un duo che combina sapientemente immagini dal sapore retrò create in diretta con inchiostro nero, sabbia, piccole sagome, vernici, utilizzando musica dal vivo aggregata a rumori di scena e maneggiata mediante loop station. Le figure, contemporaneamente proiettate a schermo, consentono agli spettatori di seguire allo stesso tempo il processo di produzione e riproduzione; il pubblico è così libero di scegliere a cosa prestare attenzione, costruendo la propria personale fruizione dello spettacolo.
In Dark Circus le animazioni che scorrono nello schermo creano un’atmosfera di vecchio cinema in bianco e nero e raccontano una storia dai risvolti noir. Ma si sa, i bambini hanno una predilezione spontanea per il mondo dell’ignoto e delle ombre; per questo iniziano ad adorare da subito questo fantasioso circo in cui ogni singola attrazione si trasforma in una sorta di catastrofe. “Siete venuti in tanti e ne uscirete affranti!” è il ritornello sbilenco di un improbabile presentatore che ci sembra di aver già visto da qualche parte… Ah ecco, ci ricorda il buon vecchio Frankenstein… I protagonisti del circo iniziano a esibirsi nei loro numeri ma – ahimè- vengono pian piano fatti fuori da sventure o dalle loro stesse incapacità. Ecco che la ballerina trapezista cade durante una sua piroetta mentre il domatore di leoni viene sbranato da un affamato esemplare felino. L’uomo cannone sparato in orbita diventa un tutt’uno con la galassia, così come la lama non dà scampo ai lanciatori di coltelli e all’ammaestratore di cavalli non resta che essere trascinato in corsa da un puledro ansioso di libertà. Infine il giocoliere gagliardo prova ancora a stupire con le sue prodezze ma è colpito a morte da una delle sue stesse palline. Come i 10 piccoli indiani della Christie, questi sfortunati personaggi sono caricature che scompaiono tristemente (ma anche ridicolmente) man mano che la storia va avanti. E intanto gli artisti in scena si destreggiano tra strumenti musicali e disegno, dando vita ad una narrazione che aderisce precisamente alle sequenze sonore di tastiera, percussioni e chitarra.
La storia, basata su una novella di Pef (Pierre Elie Ferrier) autore di libri per bambini, sembra essere messa lì apposta per esorcizzare le paure dei piccoli e trasformarle in canto. Lo ammetto, io stessa da piccola sono stata a volte inquietata da queste figure circensi di provenienza lontana a metà strada tra l’umano e lo straordinario; con una sorta di angoscia e paura (prevalenti su gioia e divertimento) ne seguivo allarmata le abilità… ma l’alternanza stridente di deformità e virtuosismi non mi faceva mai restare veramente tranquilla. E gli Stereoptik mi hanno in questo dato conforto e fatto sentire meno sola. La storia si risolve alla fine nelle fattezze di un sogno, e l’inchiostro nero verte ai colori mentre i defunti personaggi ricompaiono allegramente e danzano tutti insieme in un vortice variopinto.
Gli Stereoptik sono in scena anche il 18-19 novembre con Congés Payés (Ferie pagate) una sorta di viaggio alle origini del concetto di vacanza, dagli anni 30’40’ in poi.
Giannarita Martino
Twitter @giannarita
18/11/2017
Foto: 1.-5. Dennis Alamanos, Chotto Desh, Akram Khan Company; 6.-10. Stereoptik di Dark Circus.