L'intervista

Alessandro Sciarroni, attore, performer, regista e coreografo per caso ma non a caso.

Nell’intervista realizzata da Donatella Bertozzi, Alessandro Sciarroni racconta la sua anomala formazione iniziata come attore, le componenti fondamentali della sua poetica, il suo modo di lavorare, di costruire spettacoli, il suo essere coreografo e danzatore per caso e non per vocazione. Sciarroni racconta anche i suoi progetti, il suo lavoro nomade che si svolge prevalentemente all’estero e la sua collaborazione con il Balletto di Roma, con “Turning”, progetto sul corpo che gira, un vortice ispirato dalla migrazione degli uccelli. Tra i progetti futuri anche un lavoro per il Balletto dell'Opera di Lione.

Reduce da un bel successo al Festival d’Autumne – dove era invitato per la seconda volta – e da un emozionante debutto a New York, Alessandro Sciarroni si appresta a tornare in scena a Roma con TURNING | Symphony of Sorrowful Songs, un progetto per il Balletto di Roma diretto da Roberto Casarotto che la sera di martedì 8 dicembre 2015 conclude al MAXXI il Romaeuropa Festival.

Artista dai molti talenti – è attore, performer, regista e infine, volente o nolente, coreografo – Sciarroni appartiene alla generazione dei quarantenni. Coreografo per caso forse, come vedremo, ma certo non a caso, data l’intensità delle componenti essenziali della coreografia – spazio, tempo, ritmo, ripetizione – che si concentrano nelle sue creazioni.

Certo, se coreografo si decide di considerarlo, è quello che può vantare il curriculum di formazione più anomalo e fuori del comune.

“Dai venti ai trent’anni ho fatto l’attore, in una compagnia di teatro di ricerca, Lenz-Rifrazioni, a Parma. Nel frattempo studiavo storia dell’arte contemporanea e conservazione dei beni culturali. Mi sono appassionato alla performance art degli anni Settanta e alla storia della fotografia. Quindi non sono un artista visivo, ma ho studiato un pò, dal punto di vista critico, queste cose.

Quando nel 2007 ho fatto il mio primo lavoro pensavo di collocarmi fra il teatro contemporaneo di ricerca e le arti visive. Però poi è successo che per il teatro ero un pò troppo “minimalista”. E per le gallerie d’arte un po’ troppo… “barocco”. E’ stato Gilberto Santini, programmatore dell’AMAT (Associazione Marchigiana Attività Teatrali n.d.r.), a suggerirmi di proporre il mio lavoro ai festival di danza contemporanea. Ho mandato cinque DVD e ho ricevuto quattro inviti, da quattro festival. Da lì in poi è come se il mondo della danza contemporanea mi avesse un pò adottato…”

E ti ci sei trovato bene…

“Moltissimo. Anche perché la danza contemporanea oggi è un “contenitore” dove finiscono anche molti lavori che sono non tanto “indefinibili” quanto piuttosto lavori che non appartengono a nessun format in particolare perché possono appartenere un pò a tutti. Infatti non son l’unico ad esser stato “adottato” da questo mondo. Negli anni poi, a poco a poco, sono stato coinvolto sempre più in progetti per coreografi, anche a livello europeo, e quindi, in realtà, mi sento sempre più a mio agio in questo contenitore. Aggiungo che quando ho fatto teatro di ricerca in compagnia c’erano anche diversi danzatori e le pratiche di training erano sempre condivise, all’inizio della giornata.

Certo io non ho mai fatto una classe di contemporaneo – per non parlare di classico o moderno – ma nel nostro lavoro c’era comunque sempre una forte componente di ricerca e di lavoro sul corpo”.

Quindi tu non hai mai fatto una classe di danza?

“No. No… (il tono, al telefono, tradisce un sorriso scherzoso, vagamente autoironico)”.

E non è mai successo – dato il livello, fortissimo, di coesione che c’è fra danzatori anche in virtù di pratiche, abitudini, riferimenti, a volte persino pensieri, che sono comuni ai ballerini e ai coreografi di tutto il mondo – che tu ti sia sentito “escluso”?

“No, mai. Anche perché quando conosco un gruppo nuovo, di danzatori o di collaboratori, ci tengo molto a precisare quali sono le mie competenze, quale è il mio background. Non mi firmo mai come coreografo, non nel senso che non mi sento all’altezza… ma perché sono sempre molto chiaro, con chi lavora con me, rispetto a quello che sono stato, a quello che mi piace fare, a quello che mi piace vedere. Ed ho un mio linguaggio, rispetto alle cose che faccio, che comunque, all’inizio, è sempre “nuovo”: i miei programmi di sala son molto semplici. Mi piace anche considerarmi un pò naïf: sia quando lavoro con dei danzatori contemporanei sia quando lavoro, per esempio, con dei giocolieri: neanche quello è un contesto al quale appartengo, assolutamente… Perciò cerco sempre di chiedere alle persone innanzitutto se hanno voglia di lavorare con me. E se hanno voglia di mettersi in viaggio assieme a una persona che deve imparare tutto del loro mondo, per dare una sua versione, alla fine. Cerco sempre di essere molto “nudo” rispetto alla maniera di lavorare di fronte alla quale mi pongo. Poi magari questa è anche una maniera di mettere le mani avanti, non so… (ride ancora)”.

Parti, essendo pronto ad accogliere quello che gli altri sono?

“Sì. Per fare un esempio molto chiaro di quello che intendo: quando il mese scorso son andato per la prima volta al Balletto di Roma ho detto con chiarezza “ragazzi, alla fine della nostra settimana di lavoro non farò un casting: direte voi se avrete voglia di continuare questo percorso con me… io so che siete dei grandi artisti, che avete un esperienza incredibile, quindi per me siete già dentro al progetto”. Del resto avevo avuto carta bianca dai direttori artistici del Balletto, potevo prendere chi volevo… Alla fine della prima settimana ci siamo confrontati e loro in maniera autonoma hanno deciso chi voleva continuare, chi ha trovato il piacere a fare questa esperienza con me. Perché per me è molto importante che le persone abbiano voglia di lavorare con me. Le mie son quasi sempre azioni ripetitive che portano, apparentemente, quasi a uno sfinimento, fisico e mentale. Quindi se il performer dentro questa azione non trova il piacere per me non ha nessun senso”.

La ripetizione, componente essenziale della coreografia, è un tratto ricorrente nel tuo lavoro. Anche la costruzione a me pare coreografica. Quale è, secondo te, la ragione per cui il tuo lavoro viene considerato coreografico?

“La ripetizione sicuramente l’ho ereditata dagli studi di storia dell’arte che facevo e dalla performance art. Sono stato influenzato fortemente anche dall’arte concettuale. Però è una cosa che non mi basta, il progetto concettuale. Cerco sempre di andare a scavare, anche da un punto di vista psicologico, la relazione fra me e i performer con i quali lavoro. Alla base c’è un incontro che dura settimane, durante le quali, attraverso il racconto delle proprie esperienze, professionali ma anche a volte personali, si cerca di costruire, insieme, un gruppo. Non c’è mai una drammaturgia scritta. Quello che cerco di rivelare sul palco sono gli esseri umani. Che hanno un nome e un cognome”.

Una orientamento che ti accomuna ad autori come Pina Bausch o Bill T. Jones… Ma, più tecnicamente cos’è, secondo te, che ti fa definire dal Festival dAutumne, “coreografo”.

“Sebbene faccia fatica ancora a definirmi coreografo, mi piace però molto la definizione del sito italiano di wikipedia che dice che la danza è un’arte performativa che si basa sul movimento del corpo umano e che questo movimento del corpo umano è organizzato in un sistema, che può essere strutturato e/o improvvisato, che si chiama coreografia. Quello che faccio è esattamente questo. Il mio lavoro è quello di organizzare lo spazio e il tempo.

I miei spettacoli sono fortemente strutturati: facciamo ore e ore di allenamento. Per prevedere tutto quello che può accadere. Ma mi piace sempre che il performer conservi comunque un margine di improvvisazione all’interno delle strutture che do, perché in questa maniera è impegnato ad essere vigile, presente, sempre a contatto con quello che può accadere, in qualsiasi momento. Vivo. E se il performer è vivo io sono vivo con lui.”

Qualche parola sul lavoro che va in scena a Roma:

“E’ un primo approccio con il Balletto di Roma – una produzione ufficiale ci sarà soltanto nel 2017 –  e in questa occasione installeremo i materiali di ricerca di un nuovo progetto che si chiama Turning e che per me apre, in un certo senso, una nuova fase: perché negli ultimi quattro anni ho sempre lavorato con oggetti che pre-esistevano – vuoi la giocoleria classica, vuoi lo sport, vuoi la danza popolare – delle azioni che non inventavo io ma che “trovavo”, come dei ready-made.

Con Turning invece mi concentro sulle singole azioni e per Turning l’azione è quella del girare, quella del corpo che gira: è un progetto che mi è stato ispirato da una commissione che ho ricevuto due anni fa, sulla migrazione, come tema. Mi son chiesto quale era il movimento centrale della migrazione e lavorando e studiando le migrazioni, anche di animali come le cicogne, i salmoni, sono arrivato a questo movimento perpetuo di vortice, che gira, che gira e torna sempre sullo stesso posto. Forse – guardavo l’altro giorno un video che abbiamo girato per le prove – proprio perché sto lavorando per il Balletto di Roma – il titolo è Alessandro Sciarroni per il Balletto di Roma – assomiglia… (anche qui Sciarroni ride, fra sé, in modo scherzoso e ancora una volta autoironico) assomiglia a una coreografia in senso canonico! C’è l’energia della danza contemporanea. E’ anche abbastanza sorprendente per me, perché riprende certe cose, certi riti collettivi di quando ero un giovane attore…”

A proposito: ma come eri  arrivato a fare l’attore?

Per caso. Lo so che tutti ci tengono a dire che hanno fatto questo mestiere per caso, ma per me è stato proprio così. Da adolescente avevo tutti amici che suonavano in una band mentre io giudicavo di non avere nessun talento musicale. Così, una volta arrivato all’università mi sono detto “proviamo con il teatro: devi parlare, ti devi muovere, tutti lo sanno fare…” Non sapevo che sarei finito in una delle compagnie più radicali della scena italiana! Lì mi hanno subito messo in scena e tutto quel che ho imparato l’ho imparato lì e l’ho imparato facendolo. Lavorando. Se devo dire che fin da bambino volevo fare questo mestiere, devo dire di no. Ero affascinato, certo: super affascinato dai telefilm tipo Saranno famosi. Ma vivevo in provincia, non osavo neanche pensare… Il mio è stato un approccio assolutamente anti-intellettualistico: son cresciuto a telefilm e cartoni animati… Ho fatto l’istituto per geometri, addirittura. Poi, all’ultimo anno, abbiamo avuto questa professoressa fantastica, di italiano – come ne L’attimo fuggente – che mi ha iniziato alla letteratura. Ma molto tardi, quindi: forse a vent’anni ho letto la mia prima poesia.”

Ti senti fortunato…

“Sì. Nel senso che comunque io sono il classico esempio di quello che non ha proprio nessun tipo di raccomandazione né di conoscenza. Per questo, mi sento molto fortunato. Anzi: sono ancora un pò esterrefatto. Quando abbiamo fatto Folk-S nel 2012, quindi neanche tanto tempo fa, ci dicevamo “un giorno andremo a New York”: ma sai quando lo dici proprio come per dire la cosa impossibile, irrealizzabile…. Invece il mese scorso l’abbiamo fatto a New York, nello spazio di Bill T. Jones… arrivare in camerino la sera e trovare i suoi fiori, col biglietto firmato da lui… ti viene un colpo!

Per ora sulla scena italiana sei un pò come un UFO…

“Non sono un UFO… ma effettivamente mi dispiace che di fatto stiamo un pò sparendo, dall’Italia. Le cose stanno andando molto bene e ormai solo il dieci per cento del nostro lavoro si svolge in Italia. Qui non siamo ancora riusciti a bucare le stagioni, i luoghi ufficiali…

Cosa vedi, in prospettiva, per il tuo futuro? Una compagnia?

“Una compagnia no. Probabilmente perché sono vissuto in una compagnia e ci son rimasto per dieci anni, credo di aver già vissuto quell’esperienza. Che pure è stata un’esperienza incredibile.

Ci sono tanti collaboratori con i quali torno a lavorare, naturalmente. Ma per me è importante che un musicista, un performer, un light designer si senta libero di lavorare con chi vuole. Che non senta la responsabilità di una continuità. Perché non la voglio sentire neanche io. Si è creata però questa “famiglia allargata” per cui un giorno sto con i ragazzi di Folk-s, altre volte giro da solo, altre volte sono con un gruppo di giocolieri, altre volte ancora con un gruppo di non vedenti. Ci si ritrova, periodicamente. Ho veramente bisogno di sentire che c’è un rapporto di fiducia profondo ma anche un senso di libertà molto grande.

E poi, anche da un punto di vista tecnico, se devo dirla tutta, mettere su una compagnia stabile, adesso… In Italia? Mi sembra assolutamente anti-contemporaneo. Non abbiamo mai fatto domanda al Ministero perché non abbiamo voglia di restare incastrati in questo sistema delle date dovute, dei borderò… Ogni volta che ho un progetto nuovo Elisa Gilardino inizia a bussare alla porta dei coproduttori in tutta Europa. C’è Marche Teatro, mio produttore storico dal 2008. Per l’ultima produzione, con non vedenti e ipo-vedenti (Aurora n.d.r.) abbiamo lavorato due anni, ottenendo il sostegno di tantissime istituzioni, fra le quali anche la Fondazione Hermès che è uno dei maggiori produttori del progetto. E’ molto faticoso ma dà anche molta soddisfazione: mi piace lavorare così”.

Preferisci restare un nomade?

“Sì… anche se in realtà è tutto molto organizzato, molto preparato… Non c’è il fascino della vita di strada, se devo dire… (ride), non è così esotico. Ho un nucleo fisso di collaboratori ma cerchiamo di mantenere tutto molto leggero. Non abbiamo neppure un magazzino”.

Per ora…

“Per ora. Non viviamo neanche tutti nella stessa città”.

Leggerezza e precarietà non significano che tu non abbia un tuo repertorio, che tieni costantemente in esercizio.

“Assolutamente: stiamo girando con quattro spettacoli contemporaneamente. Mentre io ero a Parigi c’erano i giocolieri ad Angers e Joseph-kids a Valanciennes: in scena tutti nella stessa sera”.

Però per ora niente compagnia: semmai lavorare per altre compagnie…

“Per ora no, niente compagnia. Per altre sì, ed è quello che sta accadendo: adesso c’è il Balletto di Roma, l’anno prossimo c’è una richiesta da parte del Balletto dell’Opera di Lione. Sono degli artisti eccellenti, molto versatili e secondo me sarà un bellissimo incontro”.

Donatella Bertozzi

07/12/2015

Foto: 1.-2. Alessandro Sciarroni in sala prove al Balletto di Roma per Turning, ph. Matteo Carratoni; 3.-10. il Balletto di Roma in sala prove per Turning di Alessandro Sciarroni, ph. Matteo Carratoni

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2 Commenti

  1. camilla

    Cari ragazzi che tutti i giorni fate la sbarra , vi tirate le gambe e vi sbattete per l’Europa per trovare un contratto da danzatore professionista, come vedete non serve perché arriva uno che si vanta di non aver mai fatto lezione di danza ed è diventato un COREOGRAFO di FAMA INTERNAZIONALE!!!
    Ormai la danza è questo! piedi nudi e girare a ripetizione su se stessi! alla faccia dei pliè!
    ci piace essere presi in giro
    povera DANZA!

    Dic 09, 2015 @ 09:28:44

    • francesca

      Gentile Camilla, la danza è anche quella proposta da Alessandro Sciarroni. Credo che la preparazione tecnica dipenda molto da cosa si vuole fare. E’ ovvio che se si vuole entrare in un grande Corpo di ballo di un Teatro d’Opera (italiano o estero) per interpretare un grande classico di repertorio, è necessario – anzi obbligatorio – stare alla sbarra ogni giorno e raggiungere un elevato livello tecnico nella danza classica (e forse non basta neppure questo!). Se si ambisce invece a entrare in una compagnia di danza contemporanea il percorso di formazione è diverso e comprende svariate tecniche di danza contemporanea oltre che un bagaglio importante nella danza classica (i requisiti richiesti variano molto a seconda delle compagnie!). Se invece si vuole intraprendere il percorso di coreografo (contemporaneo o non), serve altro ancora. A mio avviso servono in primis le idee, cosa che Sciarroni ha dimostrato di avere. Una coreografia con tanti bei passi ma priva di un’idea non è una coreografia ne un’opera d’arte ma solo un’esibizione ginnica fine a se stessa.
      La danza ha tanti modi per manifestarsi e i percorsi che conducono al palcoscenico sono tanti e diversi. Personalmente rispetto l’onestà di Sciarroni nel raccontare la sua esperienza. In molti inventano curriculum artistici e formativi. Sciarroni non ha inventato di aver studiato con maestri blasonati. Ha raccontato la sua esperienza con grande chiarezza. Forse questa onestà intellettuale può essere di esempio per qualcuno.
      Francesca Bernabini

      Dic 09, 2015 @ 12:27:18

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