La recensione

A REf18, DIGITALIVE tra performing art, scienza e tecnologia. La danza presente con Eingeweide di Marco Donnarumma e Margherita Pevere e con Dökk di fuse*.

Ampio l’interesse del pubblico per DIGITALIVE, sezione del Romaeuropa festival dedicata all’innovazione artistica e alla contaminazione tra scienza, tecnologie, musica e danza. Tra le performance, spazio anche alla danza con Dökk di fuse* dove la danzatrice Elena Annovi si muove in spazi digitali, e con Eingeweide, opera di Marco Donnarumma e Margherita Pevere dove corpi dei performer si confrontano con l’intelligenza artificiale di una protesi robotica.

La tecnologia prestata a servizio dell’arte anche per questa 33ª edizione di Romaeuropa festival. Dalla pluriennale esperienza di Digitalife, sezione espositiva interamente dedicata al digitale (che resta ferma per il 2018), è nato DIGITALIVE, nutrito contenitore curato da Federica Patti che ha posto l’accento sulle culture digitali contemporanee. E che in particolare intendeva spingere in avanti la riflessione sul complessissimo rapporto corpo-macchina. Nell’obiettivo esplicito di mostrare l’innovazione artistica che ha per oggetto la contaminazione tra scienza, tecnologie, musica e danza, rispondendo allo stesso tempo a quell’urgenza di portare in scena le creatività emergenti.

Ed eccoli gli spazi del Mattatoio di Testaccio che sono stati invasi dalla community artistica multimediale internazionale; live music, danza, videoproiezioni, intelligenza artificiale, streaming e realtà virtuale protagonisti insieme dal 4 al 7 ottobre 2018. Nel folto calendario delle performance, la danza era presente in due momenti distinti con Eingeweide, realizzato da Marco Donnarumma in collaborazione con Margherita Pevere, e con Dökk, opera prodotta da fuse*.

Le due date di Eingeweide, il 4 e 5 ottobre 2018, hanno segnato il dialogo tra l’intelligenza artificiale e la dimensione biologica del corpo umano, a partire dal titolo: letteralmente “viscere”. In prima assoluta per REf18, dopo il riconoscimento prestigioso di ArsElettronica 2017 con la versione di studio e preparazione dello spettacolo, Eingeweide si descrive come un imprevedibile gioco sostenuto dall’interazione corpo-macchina. Il suo autore è Marco Donnarumma, di origini napoletane ma residente a Berlino; performer, sound artist, e musicista ha sviluppato una profonda esperienza transdisciplinare, traendo spunto da arte dal vivo, musica, scienze biologiche, computazione e studi culturali. Sulla scena è accompagnato da Margherita Pevere, performer, visual artist e ricercatrice attratta dall’analisi delle trasformazioni biologiche e dall’influenza che hanno i media e la tecnologia sull’arte; l’artista svolge la sua attività tra Berlino ed Helsinki.

In Eingeweide i corpi nudi dei performer si confrontano con una protesi robotica dotata di intelligenza artificiale: è Amygdala, uno strumento guidato da algoritmi che gli consentono di apprendere in tempo reale, per prove ed errori, e che per questo ha imparato ad esistere sulla scena e a muoversi in forma autonoma. Allo stesso tempo, i movimenti prodotti dai corpi vengono tradotti in suoni attraverso dei biosensori indossati dai performer, che catturano i dati prodotti dai muscoli per trasmetterli ad un software che li ri-sintetizza; il software, però, sceglie a sua volta come variare l’output musicale (è qui ancora in gioco l’intelligenza artificiale!). Niente quindi è prevedibile perché ogni elemento in gioco è dato da questo costante chiacchiericcio tra elementi biologici umani ed oggetti artificiali, macchine che però non essendo pre-programmate ma auto-apprendenti riescono ad essere protagoniste di uno scambio paritario. Il risultato per il pubblico è un’esperienza avvolgente totalizzante, potente e viscerale, e per questo anche disturbante. Lo spettatore assiste ad una lotta tra nuove forme ibridate che cercano di predominare le une sulle altre; naturale può così risultare un suo atteggiamento di evitamento mentre appare contemporaneamente e inconsciamente attratto da questi incroci pericolosi.

«Eingeweide è un rituale di coalescenza per due corpi instabili E questa coalescenza, questa capacità di fusione senza una amalgama, la ritroviamo tutta tra i due corpi immiscibili, giunti, incollati dal tronco e dalle braccia, tenuti insieme solo dalla forza di volontà e dalla potenza miofasciale. Sono corpi pulsanti, siamesicamente modellati, organismi che anelano all’evoluzione successiva; nel loro desiderio ansiogeno di mutare e di venire partoriti si cercano, spingendo fuori dal soma la specifica energia di sviluppo. Sono corpi che per la maggior parte del tempo si muovono striscianti, carponi, mostrando solo schiene e nuche, gambe che agiscono da leve portanti, puntate sul pavimento. Corpi scarni e nodosi che nascondono primordialmente volti e sguardi, lasciando che l’intimità e l’empatia con chi li osserva possa crearsi soltanto a livello (appunto) viscerale, per fermarsi così al primo stadio di conoscenza. La citata protesi robotica, anch’essa protagonista dell’opera, appare inizialmente poco influenzante la scena; assente ma presente riposa in una fredda teca trasparente aspettando con pazienza di essere risuscitata a vita. Vagamente somigliante ad una proboscide inquietante, inizia a muoversi seria dal momento in cui viene indossata a maschera da Donnarumma; e Amygdala esplora l’universo circostante, aggrappandosi con le sue zampette terminali ai corpi e agli oggetti che trova in cammino. È un incontro a due entità, ora a tre, due umani e un robot che man mano si evolvono in un discorso di confidenza reciproca. Nello struggimento conflittuale dell’avvenuta fusione di ogni singola distinta parte del proprio corpo. Eingeweide dimostra così a tutti che è sempre possibile una forma di “stare insieme”, anche se si parte da unità profondamente e naturalmente diverse.

Di registro narrativo completamente diverso è Dökk, opera andata in scena il 6 e 7 ottobre 2018 e prodotta da fuse*, compagnia indipendente fondata nel 2007 che opera nell’area di incontro tra arte e scienza. Il desiderio di esplorare le possibilità espressive date dall’uso creativo delle tecnologie digitali emergenti ha da sempre sostenuto lo studio di questa compagnia che ha sede nei pressi di Modena.

La parola dökk è islandese e significa buio; il lavoro è stato concepito come la naturale continuazione di Ljós (luce), performance creata nel 2014 e presentata in alcuni dei più importanti festival europei.

Si racconta di un viaggio che si svolge attraverso l’esplorazione di un universo fantastico: forse è l’inconscio di ognuno, forse sono i diversi livelli di coscienza della propria mente, o forse è soltanto un luogo bellissimo dove poter navigare e in cui si alternano paesaggi digitali che sconfinano l’uno nell’altro. Fatto sta che in questo luogo-non luogo la percezione del tempo e dello spazio risulta alterata attraverso una narrazione circolare in cui gli elementi scenici trasformano il palcoscenico in qualcosa di intangibile. L’immaginazione dello spettatore viene così aiutata a condurre la percezione di quanto avviene in tempo reale. Sul palcoscenico la danzatrice Elena Annovi è separata dal pubblico da un impalpabile telo semitrasparente su cui vengono proiettate immagini digitali, e alle sue spalle ulteriori retroproiezioni arricchiscono la scena. Le due superfici di proiezione aumentano la percezione di profondità e dinamicità delle immagini assicurando un livello elevatissimo di immersività allo spettatore, senza mai nascondere la figura della ballerina. Il tutto viene tenuto insieme da un software che processa paesaggi digitali in tempo reale basandosi su tre diversi elementi: 1. l’analisi del suono 2. il movimento della performer e il suo battito cardiaco, rilevati attraverso sensori biometrici da lei indossati 3. l’analisi del “sentiment” dei contenuti condivisi sui social network; in proposito, ogni volta che inizia lo spettacolo viene analizzata una sequenza di tweet che hanno per oggetto i trending topic di quel preciso istante e i dati ricavati agiscono sul “calore” delle scene modulando la tonalità del rosso oltre ad altri dettagli grafici che modificano l’atmosfera in atto. Anche l’ambientazione sonora viene influenzata da queste informazioni: la colonna sonora principale viene “mixata” con alcune tracce aggiuntive che dipendono dalle emozioni rilevate.

Questi dati così combinati fanno in modo che ogni messa in scena di Dökk sia sempre differente e unica perché frutto della casualità e dell’imprevedibilità delle informazioni analizzate. I paesaggi digitali risultano al pubblico “vivi” e reagiscono ai movimenti della danzatrice proprio come farebbe qualsiasi altro essere umano in scena. Del resto lo spettacolo stesso viene progettato per trasmettere un senso di interconnessione profonda e di elevata empatia con il pubblico, inviando un messaggio che si fonda su due concetti principali: la sincronicità e l’imprevedibilità dell’esistenza umana.

Nel passaggio tra i vari quadri e livelli percettivi che accompagnano questo viaggio, siamo accompagnati da un procedere all’interno di atmosfere cangianti ed emozioni assai mutevoli. Attraverso un vero e proprio processo conoscitivo si passa dalla gioia alla paura, dall’estasi allo scombussolamento, mentre il corpo sospeso della danzatrice, a momenti quasi etereo, si fa largo tra le visioni digitali rivendicando il proprio spazio. A tratti la danza è improvvisata, altre volte più precisamente codificata, ad ogni modo sempre irripetibile come lo sono tutti gli istanti della nostra preziosa vita.

Giannarita Martino

09/10/2018

 

Foto: 1. Dökk di fuse, ph. Emmanuele Coltellacci; 2.-3. Dökk di fuse, ph. Enrico Maria Bertani; 4. Dökk di fuse, ph. Filippo Aldovini; 5. Eingeweide di Marco Donnarumma e Margherita Pevere; 6.-7. Eingeweide di Marco Donnarumma e Margherita Pevere, ph. Vason.

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2 Commenti

  1. MariaSerafini

    A suon di grandi applausi e qualche “Brava!” il pubblico saluta Elena Annovi, performer protagonista dell’esperimento digital Dökk. La sua è la storia del naufragio in una realtà cosmica dalle tinte apocalittiche e assolute, e del suo tentativo di entrare in sintonia con uno spazio circostante dapprima percepito come estraneo, alla ricerca di un equilibrio tra l’interno e l’esterno, tra il sé e la realtà, che ben presto si rivela presupposto già in principio: è lei stessa col suo moto, il suo respiro, il suo battito vitale a con-creare quell’intreccio affascinante di luce e buio in cui si sente intrappolata, prima di cominciare ad esplorarlo, a controllarlo, a forza di prove ed errori, di cadute e nuovi tentativi. Forse strega, forse bambina, questa ninfa digitale gioca un poco a far le forme, a darsi forma, a farsi forma. E lo fa ancora e ancora, segno e schema della mano costruttrice, una stessa, nell’uomo, per il legno e per la penna, per la scienza e il videogioco.
    Questa voglia di contatto, il bisogno di fusione, è LA promessa fin dall’inizio…, onestamente, disattesa. Se non fosse per quei pochi attimi di intenzione sincera e chiaro fine, per quel (raro) movimento che si fa vero disegno di un sentire universale, si direbbe che l’impatto scenico e l’effetto speciale siano di gran lunga più voluti del resto. In un gran gorgoglio di bellezze tecnologiche la forza interpretativa sembra un po’ lasciata ai margini: lo sbilanciamento c’è, soprattutto quando il ballo assume le sembianze di un manierismo atletico, più che di una danza espressiva e teatrale. Ed è in quel momento che, contro un’attesa di coinvolgimento e partecipazione, non si può che constatare un certo grado di “scollamento” e freddezza, all’interno di uno spettacolo che, nel complesso, è un po’ “atto mancato”, nel suo saper dire più di ciò che si sarebbe potuto (e si potrà!) fare, che di ciò che si è fatto.
    Se c’è qualcosa che si accoglie con piacere è l’adesione ad un’idea di progresso tecnologico che, fuori ogni retorica gratuitamente nostalgica di passati “analogici”, mostra la sua capacità “bucolica”, il suo volto creativo, la sua dimensione percettiva, null’affatto in contrasto col mondo da cui veniamo e che, non a caso, è il mondo da cui esso stesso proviene, capace di dischiudere sempre nuove dimensioni fino a poco prima precluse, ma in cui siamo già da sempre ricompresi, in quanto eredi e nel contempo fautori: un mondo in cui tutto è sempre implicito, cioè da fare.
    Se ci è concesso andare oltre diremmo, però, che questa fusione va vissuta fino in fondo, al punto da non scendere a compromessi, da non cedere alla delega, da non cadere nuovamente in forme oppositive, nel tranello dell’ “aut-aut”. Si tratta, in fondo, di trovare con più forza nuove modalità, nuove aperture per un’autentica connessione tra realtà e immaginazione, in un limite da sempre molto labile, ma troppo spesso ripudiato in nome di una verità “che si tocca”.
    Maria Serafini
    Danzaeffebi meets #REf18

    Ott 10, 2018 @ 04:22:15

  2. elettrarossi

    Eingeweide è uno spettacolo, o piuttosto un momento performativo, che indaga l’incontro tra l’umano e la macchina, un tema ormai fortemente attuale e ricorrente.
    L’idea che è alla base della performance è geniale: l’interazione tra i due mondi avviene tramite un contatto diretto, l’uomo da un lato e la protesi dotata di intelligenza artificiale dall’altro. Quest’ultima viene letteralmente “indossata” dal performer e tra i due si innesca un meccanismo di scambio reciproco, l’inizio di una conoscenza dell’altro che però, a mio personale giudizio, non si sviluppa fino in fondo.
    L’occhio resta quasi disturbato dai concitati movimenti di queste due entità, alle quali si contrappone il sinuoso e strisciante incedere dell’altra performer che, dotata di una “proboscide” di tela, il corrispettivo della protesi artificiale, porta avanti la sua personale “scoperta”.
    La performance, accompagnata da una musica ripetitiva e assordante, ha un effetto sconcertante, quasi di fastidio, ma, tuttavia, pone degli interrogativi allo spettatore in merito a ciò di cui ha appena fatto esperienza.
    Elettra Rossi
    Danzaeffebi meets REf18

    Ott 10, 2018 @ 12:21:57

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