La recensione

La danza potente di #minaret del libanese Omar Rajeh scuote il pubblico di Romaeuropa festival 2018

Il senso della guerra e della distruzione ai nostri giorni: a REf18 si riflette sulle modalità individuali di percezione. #minaret, lo spettacolo di Omar Rajeh e della sua compagnia Maquamat, ci spinge ad allontanarci dalla assuefazione mediatica, a riflettere sulle personali modalità di resistenza alla distruzione e a analizzare il proprio senso di responsabilità.

Romaeuropa festival ha dato spazio il 29 e 30 settembre 2018 al coreografo libanese Omar Rajeh che, con la sua compagnia Maqamat, ha portato in scena la danza potente di #minaret. Uno spettacolo dalla tematica sensibile, perché dedicato alla distruzione di Aleppo e alla devastazione del minareto della grande Moschea degli Omayyadi (patrimonio dell’Unesco) avvenuta nell’aprile 2013, in seguito a guerra civile.

Con #minaret prosegue il viaggio di #REf18 between worlds; continuiamo così a esplorare uno spazio aperto a tutti, artisti e spettatori, in cui si accolgono mediazioni e riconciliazioni tra opposti, uno spazio che privilegia approcci estetici originali ed evidenzia l’esigenza di affrontare temi concreti.

Ed è assieme ad Omar Rajeh che recepiamo parte di quel costante lavoro di produzione artistica che ha contribuito significativamente allo sviluppo della danza contemporanea libanese, con risultati di eccellente animazione sul network afferente al mondo mediorentale. L’impulso di questo autore dà vita a Beirut nel 2002 al Maqamat Dance Theatre, con cui l’artista continua a portare in giro nel mondo le sue opere, conosciute non solo nei paesi arabi ma anche a livello internazionale. La sua intuizione è stata quella di non fermarsi alla creazione di spettacoli di danza, ma di voler creare dei luoghi in cui la stessa cultura della danza contemporanea potesse attecchire. Per questo stesso motivo nel 2004 crea BIPOD (Beirut International Platform of dance), dando spazio a un festival internazionale di danza contemporanea che quest’anno è giunto alla sua quattordicesima edizione e che oggi si estende anche in altre città quali Amman e Ramallah, aiutando questi luoghi a non sentirsi soli e a rafforzare il loro legame culturale e artistico. Omar Rajeh è poi cofondatore del Masahat Dance Network, una rete regionale per la danza tra Libano, Siria, Giordania e Palestina. Ed ha inoltre istituito Taekween, programma di formazione intensiva per giovani danzatori in partnership con Sasha Waltz e Guests. Una vigorosa attività, la sua, che parte dalla responsabilità di testimoniare sulla scena internazionale una forte esperienza legata ad una specifica parte di mondo.

Con il suo #minaret assistiamo all’incontro tra coreografia, musica dal vivo, arti visive e nuova tecnologia. Nel palcoscenico, accanto a sei ballerini, un drone restituisce agli spettatori il suo sguardo freddo sulla scena e sui corpi tormentati. Omar Rajeh prende spunto per quest’opera da alcuni filmati pubblicati qualche anno fa sui social network, in cui dei droni riprendevano dall’alto la distruzione di una città siriana: immagini raggelanti resi immediatamente disponibili per la condivisione immediata e compulsiva dell’utenza internauta.

Le domande che l’autore pone (a sé stesso prima e al suo pubblico poi) sono: in che modo si può reagire di fronte a queste immagini? Qual è la propria personale posizione rispetto ai terribili atti di distruzione e morte che passano davanti ai nostri occhi ogni giorno? Indifferenza? Indignazione? Ricerca del confronto con gli altri?

#minaret propone questi interrogativi a cui ognuno è chiamato a dare una personale risposta, richiamando il senso di responsabilità individuale verso qualcosa che appare umanamente inaccettabile. E anche se non si ha la possibilità di cambiare il corso delle cose, se non si può incidere in prima persona, il messaggio che #minaret ci impone è quello di non accettarle passivamente. Dobbiamo sì fare uno sforzo per allontanarci dall’assuefazione mediatica, ma siamo chiamati a quello che l’autore definisce “un atto di resistenza alla distruzione”.

Lo spettacolo però non vuole essere un manifesto politico ma esclusivamente un manifesto artistico: desidera esistere come opera organica, senza vittimizzazioni o esasperazioni. E il risultato è uno scenario devastante che racconta una storia di conflitti e di assoluta vulnerabilità umana in cui nessuno ne esce mai vincitore; gli oppressori tornano ad essere loro stessi vittime restando imbrigliati, con i propri oppressi, in una assurda spirale di violenza.

#minaret è un’opera che si presenta a più quadri, con episodi che appaiono risultare autonomi nella propria drammaturgia e che godono di alcuni comuni denominatori quali l’ineluttabilità del dolore, l’impotenza delle vittime, la violenza distruttiva. Sono scene per cui il pubblico si trova costretto a ri-elaborare la dicotomica percezione che subisce rimanendo aggrappato alla sua poltrona. Perché mentre il drone restituisce una visione distaccata “dall’alto” di quanto contestualmente accade, i ballerini rimandano al pubblico empaticamente il loro discorso, tra sequenze generose che non risparmiano la vigorosa fisicità offerta dai corpi in gioco. E così dal canto introduttivo del muezzin che prelude ad una sorta di quiete prima della tempesta, si giunge a un dialogo multiprospettico e continuo tra persone, suoni e visioni, in cui i livelli esplorati si sovrappongono l’uno all’altro per ibridare nuove forme interpretative. La coreografia “per drone” parla di un oggetto quasi sinistro, implacabile, inseguitore, che non lesina sulle immagini impietose di afflizione e accompagna la danza di questi uomini e donne doloranti. Sullo sfondo una musica dall’impasto tradizionale mediorientale – eseguita tra oud e percussioni – cerca il suo identitario spazio emergendo tra l’elettronica spinta del sintetizzatore e il ronzio minaccioso provocato del volo del drone.

#minaret racconta la storia di una umanità suggerendo suggestioni continue fatte di terra, sangue e sudore. Una storia che riguarda chiunque e a cui nessuno può sottrarsi, rispondendo alla propria responsabilità che non può essere mai negata. Perché se anche un drone è solo una macchina esterna, estranea, e meccanica è pur sempre una macchina telecomandata da una volubilissima mano umana.

Giannarita Martino

30/09/2018

Foto: Maqamat Dance Theatre in #minaret di Omar Rajeh , ph. Stephan Floss

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2 Commenti

  1. StefyDeMitri

    Vedo #minaret dopo aver seguito la masterclass di Omar Rajeh all’Accademia Nazionale di Danza. Questo mi consente uno sguardo diverso sullo spettacolo, più sensibilizzato.
    Osservo procedere Omar Rajeh in mezzo ai danzatori durante la masterclass.
    Riscaldamento – Relax a terra – Movimento lento.
    Spostare a destra e a sinistra le anche – Relax del collo – Gambe piegate – Piedi a terra – Bacino sollevato – Ondeggiamento.
    Il movimento entra gradualmente negli esercizi – Un passo alla volta – Step by step.
    No tensions – Relax.
    La difficoltà aumenta progressivamente – Molleggiamento – Sciogliere la muscolatura.
    Tranquillo – Graduale – Molto orientale.
    Fondamentale l’elasticità del bacino – Front to the back.
    Il tono di voce é pacato, calmo, lieve.
    The shouders – After the shoulders the neck.
    Explore every possibility, invita Rajeh.
    Ogni danzatore acquisisce a poco a poco i movimenti di base della coreografia. La scrittura coreografica fisica si allinea alla parte emotiva del danzatore.
    Nella parte finale della Masterclass c’è un incontro fra Rajeh e i danzatori, una conversazione.
    Il coreografo spiega la complessità di uno spettacolo come #minaret, dover coordinare in scena i danzatori, i musicisti che eseguono la musica dal vivo, gli inserimenti video ed infine il movimento del drone, la sicurezza.
    Quando vedo lo spettacolo sono colpita dal fatto che la danza coinvolge tutti. I musicisti ad un certo punto prendono i loro strumenti e si accodano ai ballerini in un movimento scenico, lo stesso drone ha il suo momento privato, il coreografo inventa per lui un assolo Il drone sale, scende, si piega di lato, ronza intorno sulla scena.
    Stefania De Mitri
    Danzaeffebi meets #REf18

    Ott 01, 2018 @ 10:50:34

  2. FrancescoMastromauro

    Ho assistito alla prima nazionale della performance #minaret in scena al Teatro Argentina il 29 Settembre scorso, scegliendo di non documentarmi prima della visione dello spettacolo stesso sia dal punto di vista del processo creativo, sia sul piano delle tematiche trattate dal coreografo e dalla sua compagnia, per evitare condizionamenti esterni. Oltre alle notevoli qualità espressive e di movimento dei danzatori, la cosa che maggiormente ho apprezzato è stato il connubio tra questi ultimi, i musicisti, il drone e le nuove tecnologie audiovisive coesistenti sulla scena per tutta la durata della performance. L’unione di queste diverse tipologie di linguaggio artistico, mirano ad evidenziare le tematiche affrontate quali la distruzione, la violenza della guerra e la Resistenza. Quest’ultima, la grande motivazione per il coreografo nella costruzione di uno spettacolo come #minaret, è tradotta in modo tangibile in movimenti che alle volte si spingono a sfidare i limiti della resistenza fisica di ciascun danzatore, aiutati da un sottofondo musicale che rimanda ad un soundscape tipico di guerra (rumori di mitragliatrici, esplosioni…).
    #minaret è il mezzo artistico attraverso il quale viene sottolineata la situazione odierna di diversi Paesi che si trovano ad affrontare quotidianamente scenari di guerra, un ponte tra queste realtà devastate e la nostra, riflettendo sulle diverse modalità di resistenza che ciascuna società si trova ad affrontare. Una performance ricca di idee, di innovazioni, di allegorie, che lasciano spazio al fruitore di interrogarsi e di avere una visione più chiara di realtà molto distanti da quello che viviamo noi tutti i giorni.
    Francesco Mastromauro
    Danzaeffebi meets REf18

    Ott 03, 2018 @ 14:59:34

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