La recensione

Parson Dance: ironia, forza, originalità, qualità e bravura per una compagnia cult

Si chiude a Roma il lungo tour italiano della Parsons Dance compagnia cult guidata dal coreografo David Parsons. Teatri esauriti e pubblico entusiasta in ogni tappa. Grande successo anche a Venezia per gli otto interpreti tra cui spicca l’italiana Elena D’Amario. Le sei coreografie proposte nelle 22 tappe del tour confermano il talento unico di Parson nel dosare ironia e profondità, forza e delicatezza, armonia e originalità.

Parsons Dance, compagnia cult della danza post-moderna, nasce dalla fusione tra il genio creativo dell’eclettico coreografo David Parsons e l’esperienza del light designer Howell Binkley. Quando una compagnia fonda il suo successo sul connubio tra danza ed illusione ottica, spesso la componente tersicorea, tecnica e coreografica, un pò ne risente. Non è questo il caso di Parsons Dance: lo spettacolo proposto nel tour italiano, iniziato a febbraio nelle Marche e che si conclude il 2 aprile 2017 a Roma, ne dà una prova effettiva.

L’impronta coreografica di David Parsons è da sempre incentrata sulla coordinazione millimetrica di azioni e figure tracciate dai danzatori, come ovvia e superba conseguenza della sua esperienza con Paul Tayor, padre nobile dell’American Modern Dance. Proprio tale influenza si percepisce nella sua forma più ampia ed evoluta fin dal primo balletto dello spettacolo portato in scena nei teatri italiani, tra cui lo storico Teatro Malibran di Venezia.

Le note che accompagnano l’apertura del sipario sono della colonna sonora del film America Beauty, composta da Thomas Newman. Si tratta di una musica essenziale, ritmata e armoniosa al tempo stesso. Il balletto Finding Center, rappresentato per la prima volta in Europa, oltre a testimoniare un affiatamento indiscutibile tra gli interpreti, in termini di tempi e prese, evidenzia anche la loro capacità di plasmarsi sulla melodia: essi sono un tutt’uno con il brano musicale, diventando espressione visiva di ogni accento, di ogni impulso, di ogni pausa, di ogni minima vibrazione.

Sullo sfondo un enorme astro cangiante cambia colore, dando ancora più luminosità agli abiti dai toni pastello che, leggeri, fluttuano sulla forza e sulla dinamicità dei ballerini. I movimenti sono avvolgenti, gambe e braccia dalle linee impeccabili, avvolgono lo spazio, riducendolo a cerchi armoniosi, vortici di piroette, salti che sembrano quasi sospensioni. Tutto è cosparso di luce vitale, di energia suprema, proprio come quella di un sole.

Nella coreografia successiva, Union, lavoro di David Parsons risalente al 1995, lo spettatore è condotto invece in un’atmosfera più intima, più profonda. La musica di John Corigliano sembra essere quasi meditativa; tutto è rallentato, i movimenti sono indagati dalla lente dell’intensità.

Le braccia escono dai corpi diventando vettori di un disegno geometrico, frecce che fendono lo spazio con parallelismi e inclinazioni, descrivendo figure mutevoli ma casuali.

La visione d’insieme è di una scultura umana, costituta da corpi rivestiti di nero eccetto che per alcuni arti. I danzatori avvinghiati e compenetranti formano veri e propri dipinti, quadri umanizzati avvolti dalla cornice dell’oscurità.

Se Parsone Dance rappresenta una splendida eccezione tra le compagnie di danza che sfruttano l’illusione ottica, curando in maniera indiscutibile la levatura coreografica, rappresenta anche un’eccezione del luogo comune che i talent show non portino alla nascita di veri artisti. La prima ballerina della compagnia, l’italiana Elena D’Amario, deve il suo incontro con il fondatore proprio ad una trasmissione televisiva. La sua è stata poi una strada di trasformazione pura ma il carisma, che aveva colpito a suo tempo il coreografo, oggi più che mai cattura lo sguardo sul palcoscenico. Per quanto si cerchi di disperdere l’attenzione sulla vastità di quanto rappresentato sulla scena, gli occhi vengono il più delle volte catalizzati da Elena, il cui corpo, visibilmente più scolpito dei tempi di Amici, ora ha preso un’eleganza esaltata dalla tecnica molto più sicura. Bravo David Parsons a cogliere il terreno fertile di un talento così giovane e a saperlo poi plasmare, tanto da conferirgli il posto d’onore.

L’ecletticità del coreografo americano primeggia in Hand Dance, creazione del 2003 in cui, grazie alla supremazia delle luci di Binkley, i protagonisti in scena sono solamente delle mani. Con squisita ironia, sulle note di Kenji Bunch interpretate dalla Orange Blossom Special, gli occhi del pubblico vengono ipnotizzati da movimenti e gesti che seducono e ammaliano, facendo sorridere per l’arduità e l’originalità della creazione.

Altra anteprima europea presentata è Unexpectd Togethere, in cui il fondatore si è avvalso per la coreografia del contributo di Ephrat Asherie.

Ancora si tratta di una coreografia in cui nessun dettaglio è lasciato al caso. Le stesse uscite ed entrate in scena degli artisti sono sempre studiate, diverse, inaspettate. Un piede appositamente rilassato, rende la visione d’insieme più naturale. Eppure di naturale non vi è molto. Studio e allenamento sono ingredienti fondamentali di un lavoro così ben fatto, di un’opera in cui il palcoscenico si fonde alla platea attraverso il respiro dei ballerini.

Isolazioni, contrazioni, virtuosismi, intensità, delicatezza, raffinatezza: ai danzatori è richiesto tutto. E danno tutto, fino a coinvolgere le loro corde vocali per arrivare a far vibrare gli animi del pubblico in sala.

L’alternanza tra ritmi veloci e lenti è calibrata con un sublime equilibrio. I cambi d’abito sono impressionabilmente fulminei.

Soprattutto in questo balletto ogni tocco è importante, ogni nota ha una ripercussione su quanto accade in scena. Un tasto di pianoforte appena sfiorato corrisponde ad un impulso, ad un movimento impercettibile, ma sempre nitido, pulito, preciso.

Non manca nel programma Caught, pietra miliare del repertorio attivo della Parsons Dance, interpretato da soggetti diversi nelle varie repliche, per darsi il turno ad un dispendio immane di energia. A Venezia, la bellissima Elena D’Amario ha fatto letteralmente sognare ad occhi aperti la platea, incantata a seguirla costantemente sospesa, grazie all’effetto delle luci stroboscopie; concretamente la danzatrice ha eseguito invece una serie infinita e velocissima di salti e grand jetè.

David Parsons esorta sempre la sua prima ballerina a dosare le energie, ma in scena Elena D’Amario non si risparmia e dà tutta se stessa. Il pubblico del Malibran ha ricambiato con applausi a scena aperta e ovazioni.

In the End conclude la stupenda serata che però sembra appena iniziata, come accade ogni qualvolta si sia di fronte ad uno spettacolo di rara bellezza. Sulle note della Dave Matthews Band, la compagnia composta da Sarah Braverman, Ian Spring, Geena Pacareu, Omar Román De Jesús, Eoghan Dillon, Zoey Anderson, Justus Whitfield e dalla citata Elena D’Amario, regala un gioco raffinato di ballate e passi a due. La forza degli interpreti maschili esalta la grazia delle ballerine. Tutto è armonioso, naturale, semplice.

Questa è la vera illusione ottica: l’apparente infinita leggerezza dei corpi è direttamente proporzionale, in realtà, alla loro potenza muscolare.

David Parsons alla fine compare in scena sul palcoscenico veneziano. Durante i saluti finali il gigante danza con le sue creature meravigliose, appare gioioso, soddisfatto di aver ancora una volta dato prova di un talento unico nel dosare ironia e profondità, forza e delicatezza, armonia e originalità.

Annalisa Fortin

31/03/2017

 

Foto: 1.-7. Parson Dance, ph. Lois Greenfield; 8. Parson Dance, ph. Angelo Redaelli; 9.-12. Parson Dance; 13. Parson Dance Company; 14.David Parson.

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