L'intervista

Neon Dance. Adrienne Hart, coreografa e direttrice artistica della compagnia inglese, racconta Empathy, innovativo spettacolo tra danza e raggi laser.

Empathy, lavoro innovativo della compagnia inglese Neon Dance, ragiona sulla capacità dell'essere umano di immedesimarsi, patire e gioire assieme agli altri. Adrienne Hart, sua ideatrice e direttrice artistica della compagnia, ci spiega cosa c'è dietro questo lavoro per 5 danzatori immersi dentro tracciati laser luminosi.

Cosa ci spinge a sentirci vicino agli altri fino a provarne gli stessi sentimenti, siano essi di gioia o tristezza? Perché a volte siamo in grado di comprendere appieno lo stato d’animo altrui mentre, per contro, ci sono individui che rimangono impassibili di fronte ai problemi espressi dai loro simili, non riconoscendone pensieri ne’ emozioni?

E’ l’interrogativo che guida Empathy, l’ultimo lavoro della compagnia britannica Neon Dance, presentato la scorsa stagione nel Regno Unito e previsto anche in tournée europea nei prossimi mesi.

Se l’empatia è la facoltà del tutto umana che interviene per farci “risuonare” assieme agli altri, assistere al lavoro di Neon Dance può significare rimanere profondamente toccati dalle emozioni che vengono esplorate da 5 ballerini immersi dentro tracciati laser luminosi. I performer si toccano e si piegano, si spingono e sollevano, cambiano posizioni bilanciandosi vicendevolmente, si caricano emotivamente esplorando l’intricata rete delle loro prossimità. Gli spettatori, invitati a una vera e propria navigazione tra le sequenze drammatiche in scena, si ritrovano così a empatizzare spontaneamente con i danzatori, senza che sia stato necessario attivare alcun tipo di pensiero logico e razionale. Mentre la freddezza delle luci laser aiuta a comporre gesta che appaiono precise e allo stesso tempo brutali, gli avvicendamenti sul palco risultano adeguatamente bilanciati tra movimenti dei danzatori, suoni e scenografia.

Per capire da dove nasce il concept narrativo di Empathy ci siamo rivolti alla sua stessa ideatrice Adrienne Hart, coreografa e direttrice artistica della Neon Dance Company. I suoi lavori sono stati commissionati e supportati da nomi di rilievo nel panorama anglosassone (tra gli altri Arts Council England, Creative Industries iNET, Creative England, Dance Digital, Swindon Dance, Modern Art Oxford, Glastonbury Festival, the Royal Opera House, Dance City, Pavilion Dance South West, The National Theatre, Dock 11). La Hart vanta inoltre collaborazioni a livello internazionale tra Russia, Norvegia, Germania, Kossovo.

Adrienne, dobbiamo innanzi tutto iniziare dalla storia di Neon Dance Company. Come nasce e su cosa vertono i vostri lavori? 

Neon Dance è una compagnia di danza riconosciuta a livello internazionale che realizza performance innovative sia per il palcoscenico che per lo schermo. Ogni produzione nasce da un lavoro collaborativo per creare opere destinate a una vasta gamma di spazi, a seconda delle necessità: possono essere luoghi molto intimi, come quelli dei piccoli teatri, fino ai festival che si svolgono su larga scala.

La crescente reputazione di Neon Dance come compagnia sperimentale, ci ha permesso di assicurarci la partnership con il Pavilion Dance South West (Dream Artist 2015-17), il Sound and Music (Audience Lab 2015-16) e il Sadler’s Wells (Adrienne Hart, Summer University 2015-18).

La compagnia è attiva dal 2004 e si esprime attraverso progetti audaci, divertenti, che non hanno paura di “osare”, correndo perciò quei rischi che sono propri dei prodotti innovativi: nostra intenzione è accendere l’immaginazione del pubblico che assiste agli spettacoli. Personalmente sono un’appassionata delle pratiche collaborative. Amo l’idea che, attraverso un rigoroso processo cooperativo, uno scenografo o un compositore possano alterare positivamente il mio pensiero coreografico, influenzandolo; tutto ciò può essere solo salutare per un processo creativo, può aiutarlo a farlo esprimere. Ne deriva un lavoro a più sfaccettature.

C’è qualche tecnica o pratica coreografica che ti ha particolarmente ispirato, in quanto realizzato finora?

Non direi. Non posso pensare che un coreografo di preciso mi abbia influenzato durante le mie opere; devo però ammettere di essere stata sicuramente impressionata, nel corso della mia storia, dai lavori di Kurt Jooss [1901-1979, uno dei precursori della danza contemporanea con il principio dell’essenzialismo] e dal movimento espressionista della danza tedesca. Anche Oskar Schlemmer è stato per me un punto di riferimento [1888-1943, pittore e scultore che ha aderito al Bauhaus, la scuola considerata da tutti i movimenti d’innovazione nel campo del design e dell’architettura facenti parte del movimento moderno].

Parliamo adesso di Empathy: qual è il concetto che lo sostiene? Raccontaci come si è evoluto il progetto, anche dal punto di vista delle tecnologie e degli strumenti che sono stati impiegati.

Empathy nasce da una serie di conversazioni che ho avuto con lo psicologo Simon Baron Cohen, autore di Zero Degrees of Empathy: A New Theory of Human Cruelty [ed. italiana La scienza del male. L’empatia e l’origine della crudeltà, Raffaello Cortina, Milano 2011].

Ero interessata a esplorare ciò che rende il nostro comportamento unicamente umano. Allo stesso tempo volevo assolutamente realizzare un lavoro dove distribuire equamente movimento, suono e luci, affinché contribuissero in parti uguali alla sua riuscita. Volevo quindi allontanarmi dall’idea comune di spettacolo (inteso come aver davanti un pubblico che assiste distaccato) per focalizzarmi sul modo di influenzare i miei spettatori, rendendoli più o meno empatici rispetto a quanto avveniva sulla scena.

A questo punto ho pensato di invitare a collaborare al progetto i Numen/for Use [collettivo di spicco composto da artisti internazionali e attivi in varie parti del mondo con opere che spaziano tra arte concettuale, design industriale e produzione scenografica]. Avevo pensato di raffigurare in scena una sorta di “crudele architettura” all’interno della quale far interagire i performer, così diedi ai Numen il compito di riprodurla. All’inizio mi presentarono quattro idee completamente diverse tra cui individuammo quella che fu poi usata, basata sull’uso di un laser per disegnare una vera e propria struttura luminosa sul palcoscenico: ne derivava una sorta di architettura fatta solo di luci.

Il laser cominciò subito a sembrarmi estremamente crudele e ancora più interessante. Non appena iniziammo a ipotizzare e programmare le diverse direzioni verso cui proiettare la luce, incredibilmente capii che anche il laser aveva una sua spiccata personalità: in sostanza si esprimeva lui stesso! E adesso sono arrivata a considerare quel laser come il sesto performer tra i 5 ballerini in scena; mentre a volte può apparire inflessibile e crudele, altre volte addolcisce fortemente i momenti espressivi sul palcoscenico. 

Stuart Bailes, che collabora con noi da lungo tempo, si è poi occupato delle luci in scena e la pluripremiata stilista  Ana Rajcevic ha pensato ai costumi. Ana è un’artista che crea sculture fashion indossabili e per noi ha definito questi incredibili accessori che hanno inciso sul modo in cui i danzatori sono venuti in contatto, l’uno con l’altro, durante la performance. Ne sono esempio le braccia estensibili adoperate da Annapaola Leso (la nostra ballerina italiana!) nella sequenza di apertura. Il video girato durante le prove di Empathy ci permette di capire come gli arti aggiuntivi siano stati percepiti e interpretati. Annapaola ha infatti usato queste braccia per enfatizzare la distanza tra sé e quello che la circondava, portandola a elaborare una fisicità espressa in modo quasi animale, più che umano.

Laser, luci, costumi. Quali le collaborazioni musicali e in quale modo si è lavorato con un team così imponente?

Per quanto riguarda le musiche, Empathy presenta una partitura originale composta da musica dal vivo e registrata; autori ed esecutori sono la violoncellista islandese Gyða Valtýsdóttir e il multistrumentista newyorkese Shahzad Ismaily, in collaborazione con Mads Brauer e Casper Clausen della pop band danese Efterklang.

Dopo un lungo periodo di ricerca ho redatto un documento che è diventato un modello di riferimento per tutti gli artisti coinvolti in Empathy. Posso dire che tutti quelli che sono intervenuti in qualche modo in questo lavoro hanno dato il loro prezioso contributo e ognuno ha inciso per la propria parte. L’uso del laser ci ha consentito di separare le scene in spazi ben definiti per far “navigare” i danzatori. I costumi hanno supportato le mie idee coreografiche e a volte mi hanno anche fatto cambiare idea sulle scelte da adottare. È stato un lavoro che non ho potuto fare da sola; credo che il risultato, alla fine, sia rispondente al tema che ho voluto trattare.

Abbiamo realizzato anche alcuni filmati che mostrano il “dietro le quinte” di Empathy; sono importanti perché mostrano cosa ha significato questo lavoro per gli artisti del nostro team. I video sono visibili a questo link www.neondance.org/empathy-1

Aspettiamo allora di apprezzare Empathy prossimamente anche in Italia…

Ci piacerebbe tanto venire nel vostro paese! Nei prossimi mesi lo spettacolo sarà in scena nel Regno Unito e avremo anche alcune date europee nell’autunno 2016 tra Belgio e Germania… vediamo cosa ci porterà il 2017! Colgo l’occasione per segnalare che proprio per gli spettacoli autunnali stiamo cercando nuovi danzatori. Un workshop audizione su invito sarà organizzato a Londra sabato 3 settembre 2016.

Ci lasciamo con le parole di Simon Baron-Cohen: “Empathy is like a universal solvent. Any problem immersed in empathy becomes soluble.” (l’empatia è come un solvente universale: qualsiasi problema vi si immerge diventa solubile).

Giannarita Martino

Tw @giannarita

Foto: Neon Dance, Empathy di Adrienne Hart, ph. Oliver Holmes, Tonje Thilesen

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